The Game, l’ultimo lavoro di Alessandro Baricco (Einaudi 2018, pp. 336, euro 18), è un libro importante. E lo è per molti motivi. Primo fra tutti perché è un tentativo niente affatto banale di pensare nella sua complessità, e dunque al di fuori di percorsi settoriali, il tratto più caratteristico di questo tempo, ovvero, detto diversamente, ciò che segna in modo indelebile il nostro essere nel mondo ora, dentro le coordinate epocali nelle quali siamo situati.
Essere nel mondo – dice Baricco – significa oggi muoversi dentro l’orizzonte di quello che lui chiama il Game, ovvero dentro una dimensione dominata e determinata dalla rivoluzione digitale, della quale qui Baricco racconta la storia, cercando di chiedersi, archeologicamente, a partire da quali istanze e da quali bisogni essa sia sorta, quale sia stata la sua evoluzione e a quale punto – e dunque con quali problemi irrisolti – ci troviamo oggi guardando al futuro.
Il Game – questo punto è decisivo nell’argomentazione di Baricco – non è una dimensione altra rispetto alla nostra esistenza e nella quale la nostra esistenza può o meno decidere di entrare. Il Game è l’ambiente, la nicchia ecologica dentro la quale in questa epoca in cui ci troviamo la nostra esistenza respira ed è se stessa. Il nostro muoverci, il nostro agire e soprattutto il nostro pensare sono infatti un muoversi, un agire e un pensare determinati dal Game. E questo Baricco lo mostra in un modo straordinariamente incisivo ed efficace.
The Gameè anche un libro straordinariamente irritante. Un libro che gronda narcisismo, scritto in modo così accattivante e comunicativamente efficaceda sfociare dentro strutture retoriche talmente gigionesche da portare non di rado il lettore alla tentazione di lanciare il tomo dalla finestra. Tuttavia, non prenderlo sul serio solo perché è Baricco (e cioè un autore che divide il mondo in likers e haters), non imparare tutte le cose che questo libro consente di imparare solo perché ci si trova a quel punto costretti ad ammettere che il suo autore sa spiegare e vedere molto bene alcune cose rispetto alle quali il nostro sguardo fatica spesso a mettere a fuoco non ha davvero molto senso. Anche perché, al netto delle irritazioni, un saggio di 300 pagine e passa che fa pensare, che si legge d’un fiato e senza mai annoiare un momento non è proprio cosa che il convento passi così frequentemente.
Non è facile riassumere il libro, perché davvero il discorso che esso articola si muove (un po’ come un ipertesto) dentro a molte dimensioni tutte piuttosto importanti. Diciamo però questo: Il Game è il nome che Baricco dà alla civiltà che nasce dalla rivoluzione digitale. La parola ‘civiltà’ è importante, perché dice la portata radicale, strutturale e onnipervasiva della trasformazione di cui si parla. Il Game è cioè, insieme, il campo da gioco e il gioco stesso dentro cui si viene a determinare una nuova modalità di essere da parte degli umani, ovvero un modo inedito di stare al mondo, un modo inedito di pensare, di agire e di mettersi in relazione con se stessi, con gli altri e con le cose. Così come esiste una civiltà cristiana, una civiltà moderna, così come l’illuminismo e il romanticismo hanno forgiato appunto un tipo di umano che prima non c’era, un tipo di mondo di cui prima non era dato fare esperienza, altrettanto è accaduto con la rivoluzione digitale. Il paesaggio che la rivoluzione digitale disegna non è perciò semplicemente una possibilità in più rispetto a quelle che già possediamo, un tool nuovo che ci consente di fare delle cose che prima faticavamo molto a fare, ma una vera e propria rideterminazione del nostro modo d’essere, del nostro modo di stare nel mondo. Anzi, per dirla tutta, è l’imporsi di un’idea diversa e prima inimmaginabile del mondo stesso. Questo è il punto decisivo del libro, l’elemento che lo rende davvero importante. E qui ovviamente stanno anche i problemi. Problemi che, neanche a farlo apposta, rimandano a quella parola che è per molti versi il brand del personaggio (di Baricco, si intende), ovvero lo storytelling. Che non è, dice Baricco, semplicemente un modo “furbo” per raccontare le cose, un modo per rendere credibile ciò che altrimenti non lo sarebbe, quanto piuttosto il modo in cui le cose si presentano e vengono presentate, il terreno dentro cui i fatti possono sopravvivere senza essere dimenticati o soppressi. Lo storytelling non è insomma, spiega Baricco, il modo in cui banalmente travestiamo o trucchiamo la realtà. Lo storytelling è proprio un pezzo della realtà. Se togli dalla realtà i fatti, dice Baricco con infelicissima formula, quello che resta è appunto lo storytelling. Infelicissima, perché intanto fa pensare che la realtà sia una sorta di congiunzione di fatti e soggetti, ovvero di due cose separabili (il che contraddice l’idea che lo storytelling sia qualcosa che appartiene alla realtà e non alla rappresentazione che di essa si fanno i soggetti) e poi perché si presta al gioco – togli dalla realtà lo storytelling e quello che rimane sono i fatti – che riporta lo storytelling a quella visione banale di messa in scena e di semplice trasformazione narrativa dalla quale Baricco vorrebbe sganciarlo.
In ogni caso lo storytelling dentro cui Baricco ci chiede di pensare il Game è questo: si può comprendere il Game solo se si tiene conto del principale scopo per cui esso è nato: rendere impossibile la ripetizione di una tragedia come quella del ‘900. Il Game non sarebbe, cioè, solo un mondo nuovo, ma ben più radicalmente la reazione consapevole a quel mondo del quale volevamo liberarci, il tentativo cioè di far fuori il modo di pensare che ha prodotto quella grande tragedia (due guerre mondiali, la Shoah, la bomba atomica) che chiamiamo il ‘900.
Ed è su questo – ovvero su quello che Baricco ritiene essere il cuore della sua proposta, secondo cui si può comprendere il Game solo se si tiene conto che esso è nato allo scopo di rendere impossibile che la tragedia del ‘900 si possa ripetere – che il libro non convince.
Per dire: è interessante che Baricco quando vuole fare degli esempi che facciano capire che razza di rivoluzione sia quella digitale la paragoni a rivoluzioni culturali quali sono state l’illuminismo e il romanticismo, ovvero a mutazioni antropologiche che sono connesse a movimenti culturali e a elaborazioni teorico-concettuali e mai invece a qualcosa a cui pure verrebbe forse più semplicemente (e certo banalmente, direbbe Baricco) da paragonarla, ovvero alla rivoluzione industriale. E tuttavia – è lecito chiedersi – perché mai la rivoluzione digitale sarebbe una rivoluzione che per quanto fatta da ingegneri e non da filosofi e letterati è però una vera rivoluzione culturale, mentre la rivoluzione industriale non lo sarebbe se non nella sua connessione all’illuminismo e al romanticismo? Anche la rivoluzione industriale è stata una rivoluzione che ha cambiato il modo di stare al mondo degli umani, che ha trasformato il modo stesso degli umani di essere animali che abitano il mondo. Se non parliamo della rivoluzione industriale in termini di rivoluzione culturale nello stesso senso in cui ne parliamo da proposito dell’illuminismo e del romanticismo è perché abbiamo la sensazione che la rivoluzione industriale non sia immediatamente connessa a un bisogno di trasformazione concettuale, voglia di per sé nulla sul piano teorico-concettuale, non sia cioè legata a nessun desiderio che non sia quello di fare le cose più efficacemente, con meno fatica, più rapidamente, collegando ciò che non era prima collegato, rideterminando il valore dei tempi e degli spazi con la velocità e la possibilità di avvicinare quanto prima era separato da distanze incolmabili. Facendo tutto questo, certo, essa produce una necessità: la necessità di un pensiero nuovo e diverso, di una cultura nuova e diversa, di una consapevolezza nuova e diversa. Ma la rivoluzione industriale non è di per sé questa cultura, questo pensiero, questa consapevolezza. La cultura, il pensiero e la consapevolezza nascono semmai come risposta, come elaborazione, come movimento che è insieme di adattamento e resistenza, rispetto a quella seconda natura che l’umano sempre produce e dentro cui l’umano si trova sempre a vivere che è la tecnica.
Adattamento e resistenza, sono questi i due movimenti dentro cui nasce una cultura.
Adattamento a condizioni mutate, a nuove prospettive, a paesaggi prima inediti, ovvero prima impensabili e impensati. Resistenza rispetto al venire del tutto annichiliti da questa seconda natura, all’esserne semplicemente schiacciati, al diventarne semplicemente tassello, meccanismo, prodotto.
Proprio in quanto è insieme adattamento e resistenza, lacultura è necessariamente critica, ovvero è necessariamente quella peculiare forma di attività e di discorso che consente di svelare e portare in superficie gli ingranaggi nascosti che innestano i movimenti rispetto ai quali abbiamo talvolta l’illusione di essere l’origine essendone invece il prodotto. Attività e discorso che riesce a farci capire come ciò che appare naturale, scontato, ovvio, sia sempre il prodotto di decisioni, di scelte, di interessi di una parte o di un’altra.
L’operazione di Baricco rischia invece di essere ideologica, in quanto connettendo in modo così forte e diretto iI Game a quell’istanza di emancipazione dalle forme di pensiero novecentesco che starebbero all’origine delle tragedie del secolo breve di cui il Game impedirebbe il ripetersi, da un lato tende a piegare la storia al fine di metterne in evidenza solo i lati che sono coerenti con l’assunto che regge lo storytelling stesso (il che ovviamente non implica che le cose che Baricco mette in evidenza siano false – la sua analisi è invece spesso assai significativa e penetrante – ma che esse sembrano tutte orientate a sostenere e rendere convincente la struttura di fondo – lo storytelling– dentro cui sono articolate), dall’altro pone quasi automaticamente qualsiasi dimensione critica dentro la lagna nostalgica, la difesa di rendite di posizione, l’incapacità di liberarsi da un pensiero che invece il tempo ha già fatto fuori e che una resistenza patetica si ostina ad assumere come lo sfondo delle nostre esistenze.
Dicendo che la rivoluzione digitale nasce da quella piattaforma, cioè dall’istanza di impedire il ripetersi della tragedia novecentesca, Baricco dice, a un tempo, troppo e troppo poco. Dice troppo nel senso che attribuisce a questa rivoluzione istanze che le sono in larga parte estranee, che certamente la toccano, ma che non la spiegano realmente. Dice troppo poco perché, pensandola come la realizzazione di un desiderio di liberazione, fa pensare in questo modo che una tale rivoluzione sia il prodotto di una volontà soggettiva, come se davvero la storia, l’articolarsi del mondo fosse il prodotto di alcune volontà, di alcuni gesti calcolati.
E in questo Baricco si rivela del tutto novecentesco: pensare a un soggetto che crede di poter determinare la storia e il mondo in base a scelte e decisioni volontaristiche è infatti il segno di quella tracotanza del soggetto che non è del tutto peregrino porre all’origine di quelle tragedie novecentesche che, secondo Baricco, la rivoluzione digitale ci consentirebbe di non ripetere.