Roma, città aperta. In un articolo che si è meritato la copertina di Science, un gruppo internazionale di biologi e antropologi ha ricostruito la storia genetica di Roma, fin dalle remotissime origini fino alla caduta dell’Impero romano e oltre. Giungendo alla conclusione che quando era all’apice della sua gloria e quando aveva raggiunto le dimensioni di una metropoli da un milione di abitanti, Roma era come New York, una città cosmopolita con gente proveniente da ogni dove, in specie dalla Grecia, dalla Siria, dal Libano, ma anche dal Nord Africa. Una città aperta in senso antropologico, appunto.
I ricercatori hanno analizzato il DNA tratto da 127 scheletri diversi trovati in 29 siti archeologici dell’Urbe appartenenti a persone vissute in un arco di tempo di 12.000 anni.
Il Bo Live ospiterà a breve un commento specifico a questa ricerca e ai suoi risultati. Ora noi tentiamo di inquadrare la peculiare storia di Roma nell’ambito della più generale storia italiana, prendendo a riferimento due lavori recenti, ma non recentissimi: l’articolo The Italian genome reflects the history of Europe and the Mediterranean basin, pubblicato nel luglio 2016 sull’European Journal of Human Genetics (l’articolo era apparso già sull’edizione online della rivista nel novembre 2015) a opera di Giovanni Fiorito, antropologo dell’università di Torino e di un gruppo di suoi collaboratori tra cui Alberto Piazza, un pioniere di questi studi; il libro, Italiani. Come il DNA ci aiuta a capire chi siamo, pubblicato sempre nel 2016 due antropologi della Sapienza, Università di Roma, Giovanni Destro Bisol e Marco Capocasa.
I due lavori tentano di rispondere alla domanda: chi siamo, noi italiani? La risposta dell’antropologo Giuseppe Sergi non ammette dubbi: siamo la razza «più bella morfologicamente che sia apparsa in Europa».
Ma Giuseppe Sergi si crogiola in questa sicurezza alla fine dell’Ottocento. Poi c’è stato il fascismo, che sull’idea di razza italiana pura ha fondato le sciagurate leggi razziali del 1938. Ma oggi c’è la genetica, che smonta entrambe le assunzioni di Giuseppe Sergi. Intanto perché è stato dimostrato che il concetto di razza umana non ha alcun fondamento scientifico. E poi perché non esiste una popolazione italica sufficientemente omogenea. Anzi nella penisola esiste un gradiente di diversità genetica che fa della popolazione italiana la più variegata d’Europa.
Proprio Alberto Piazza, con Luigi Luca Cavalli Sforza e Paolo Menozzi, aveva dimostrato, in un libro, The History and Geography of Human Genes del 1994, che popoli, geni e lingue sono strettamente correlati. Ebbene, in Italia la diversità linguistica è la più grande d’Europa. Nel nostro paese si parlano 35 lingue diverse, esclusi i contributi delle migrazioni più recenti e le diversità dialettali. Più che in Germania (27), Francia (23), Spagna (15) e Regno Unito (13). L’indice di diversità linguistica che misura la probabilità di estrarre a caso in un gruppo due persone di madrelingua diversa, come ricordano Destro Bisol e Capocasa, per l’Italia è del 47%, grazie ai 3 milioni di italiani che fanno parte di minoranze linguistiche. Mentre in Germania è del 37% e ancor meno negli altri paesi europei.
Anche i geni ci parlano di una grande diversità. L’analisi del cromosoma maschile Y ci dice che se è 100 la differenza genetica che si osserva in media tra le popolazioni di tutta Europa, nella sola Italia la differenza è 80. Se poi si analizza il DNA mitocondriali, risulta che la diversità media tra gli italiani è uguale se non addirittura superiore alla diversità tra tutti gli Europei.
Altro che la razza pura vagheggiata da Giuseppe Sergi: gli antropologi oggi ci dicono che la popolazione italiana è il trionfo della diversità. Siamo la popolazione geneticamente più variegata d’Europa.
Perché? Perché noi italiani siamo il frutto del mescolamento di popolazioni che, in diverse epoche storiche, sono arrivate nella nostra penisola da direzioni, appunto, le più diverse. Come recita il titolo dell’articolo di Fiorito, il genoma degli Italiani riflette la storia dell’Europa e del bacino del Mediterraneo.
I primi Homo sapiens sono giunti in Italia tra 40.000 e 30.000 anni fa. Provenivano dal Medio Oriente, dopo essere usciti dall’Africa. Incontrarono, nella penisola come in Europa, i Neanderthal, con cui talvolta si incrociarono. Le popolazioni europee attuali portano tracce, nel loro DNA, di quegli incontri d’amore tra maschi e femmine di due diverse specie del genere Homo. Che questi incroci si siano verificati anche nella nostra penisola non lo sappiamo. Anche perché dei primi sapiens giunti in Italia nel nostro DNA v’è solo qualche labile traccia.
Il nostro codice genetico ha invece registrato la seconda, grande ondata migratoria che ha interessato la penisola, tra 25.000 e 20.000 anni fa, nel pieno dell’”ultimo massimo glaciale”, quando l’Europa fu quasi interamente ricoperta dal ghiaccio e le popolazioni di raccoglitori e cacciatori sciamarono da nord verso il più confortevole mezzogiorno continentale. Qui i gruppi di sapiens vissero in maniera relativamente isolata fino a quando durò la glaciazione. La diversità genetica diminuì. E questo spiega perché tracce genetiche di una popolazione isolata vissuta in Sardegna si ritrovino, oggi, anche tra la popolazione della Francia meridionale. Ma quando i ghiacci si sciolsero le popolazioni umane ricominciarono a diffondersi nell’intero continente. E la diversità genetica ricominciò a crescere tra le antiche popolazioni paleolitiche d’Europa.
Questa storia trova conferma nel DNA delle persone che abitavano la zona ove oggi è Roma tra 12.000 e 9.000 anni fa: il loro genoma è del tutto simile a quello degli altri europei. Nove millenni fa, il cambiamento. Ci fu, infatti, una seconda ondata migratoria che ha lasciato tracce nel DNA dei moderni abitanti d’Italia: questo flusso migratorio ha avuto luogo all’incirca 8.000 anni fa, quando arrivarono, sbarcando questa volta nel Sud della penisola, popolazioni di allevatori e agricoltori provenienti dall’Anatolia. I nuovi migranti con una cultura affatto diversa hanno impiegato circa 1.500 anni per risalire in maniera significativa la penisola e mischiarsi con le antiche popolazioni. Questa diffusione ha contribuito non poco a creare il gradiente di caratteristiche genetiche della popolazione attuale della penisola. Come scrivono Destro Bisol e Capocasa, la diversità genetica che si osserva oggi nel cromosoma Y delle popolazioni del Nord Ovest (dalla Toscana al Piemonte) e di quelle del Sud Est (Calabria e Sicilia) sono dovute in buona parte a questa “transizione del neolitico”. In soldoni: nel Nord del paese c’è una maggiore impronta dei migranti settentrionali del paleolitico e in quelle del Sud del paese una maggiore impronta dei migranti orientali del neolitico.
Anche gli abitanti del Lazio furono partecipi degli effetti di questa seconda grande migrazione di persone provenienti da Oriente.
Una terza ondata migratoria forse di minore portata di cui comunque, soprattutto al Sud, portiamo traccia è quella dei coloni greci giunti in Italia a partire dall’VIII secolo. Apriamo una parentesi. I primi greci giunsero sull’isola d’Ischia nel 780 a.C. per commerciare con gli Etruschi. Ma chi erano, geneticamente, gli Etruschi? Nel corso della storia a questa popolazione italica è stata attribuita la più diversa origine. Alcuni sostengono che sia una popolazione autoctona, altri invece che sia una popolazione giunta da Oriente. Le analisi genetiche della popolazione attuale erede degli Etruschi sembravano aver confermato la prima opzione. Ma nel lavoro del gruppo di Fiorito si afferma il contrario: nel DNA ricavato dai resti degli antichi Etruschi sono state trovate tracce che confermano la provenienza orientale. Dunque quella degli Etruschi sarebbe stata un’altra ondata migratoria da Oriente, che corrobora l’idea che la penisola sia un luogo di convergenza di diverse popolazioni che, nel tempo, l’hanno eletta a propria sede. Vale la pena ricordare che tracce genetiche degli Etruschi sono ancora evidenti nelle popolazioni dell’Italia centrale, in particolare della Toscana.
Certo anche la Roma dei primi secoli è abitata da persone il cui DNA reca tracce della vicina Etruria. Per certi versi Roma è stata anche una città etrusca. Ma poi il piccolo borgo, in età repubblicana, inizia a diventare una città importante. Fino a dominare il Mediterraneo, dopo la sconfitta di Cartagine e la conquista della Grecia, nel II secolo prima di Cristo. E come ogni città importante è luogo di attrazione. Molte persone dal Nord Africa e, soprattutto, dalla Grecia e dal Medio Oriente, oltre che da tutta Italia, iniziano ad affluire a Roma, che inizia così ad avere un suo profilo genetico del tutto originale. I flussi migratori, dimostra la ricerca pubblicata su Science, diventano imponenti nell’età imperiale. E la contaminazione genetica e soprattutto culturale sono tra i fattori principali di successo della città che inizia a sentirsi eterna. Roma come New York, appunto.
I flussi migratori sono continuati anche in epoca storica. Tutti a scuola abbiamo studiato l’arrivo dei “barbari” prima, durante e dopo la fine dell’Impero Romano. Tuttavia di queste invasioni – conferma la ricerca pubblicata su Science – ci sono tracce genetiche piccole (ma non nulle). Più significative (ma pur sempre inferiori alle tre precedenti) è la variabilità genetica che possiamo associare all’arrivo degli Arabi e poi dei Normanni nell’Italia meridionale.
Dopo la divisione in Impero d’Occidente e Impero d’Oriente, Roma inizia la parabola del declino. Incluso il declino della diversità genetica. Costantinopoli diventa il nuovo centro di attrazione dei migranti. In pochi secoli Roma perde il 90% dei suoi abitanti e diventa un centro abitato solo da 100.000 persone, con un profilo genetico non troppo dissimile da quello degli altri italiani.
Ora sappiamo chi sono (chi erano) i Romani. Ma possiamo rispondere con maggiore definizione di dettaglio anche all’altra domanda: chi siamo, noi italiani?
La risposta è: i figli di una storia variegata ma intensa di migrazioni che ha interessato nel corso del tempo profondo la nostra penisola. Questa storia è stata punteggiata e arricchita da storie di migrazioni minori, da piccoli gruppi che in diverse epoche sono giunti, per diversi motivi, in Italia costituendo piccole isole culturali e genetiche. Come le popolazioni germaniche insediatesi in tre valli distinte a Sappada, Sauris e Timau, tra Veneto e Friuli Venezia-Giulia, in epoca storica, tra l’XI e il XIII secolo. O come gli albanesi giunti in Calabria e Sicilia tra il XV e il XVIII secolo. Gruppi che hanno poi avuto una storia molto diversificata. In Calabria hanno costituito soprattutto comunità isolate, con scarso scambio genico. In Sicilia si sono mescolati con il resto della popolazione.
Particolare è l’omogeneità genetica tra la popolazione maschile di origine sudtirolese della Val Pusteria, della Valle Isarco e della Val Venosta nell’Alto Adige. È la più alta d’Europa ed è dovuta a un fattore sociale: il “maso chiuso”. In pratica, in questa popolazione di lingua tedesca la proprietà era indivisibile. Alla morte del padre, il “maso” andava tutta e unicamente al primo figlio maschio. Gli altri figli maschi dovevano cercare fortuna altrove e si disperdevano, dunque, nelle valli adiacenti, contribuendo a creare così l’omogeneità genetica che il gruppo di Destro Bisol ha rilevato oggi.
Del tutto diversa la storia di Roma, che ha conosciuto un massimo di diversità genetica. Per molti secoli l’Urbe è stata una città aperta. Ha accolto migranti, liberi o forzati, in grandi quantità. E questa contaminazione, lo ripetiamo, è coincisa con il suo successo. Quando i flussi di migranti si sono indirizzati altrove, la grandezza di Roma ha iniziato a declinare.
Quanto all’Italia, la narrazione che abbiamo cercato brevemente di intrecciare dimostra che la sua variegata popolazione non è frutto di una singola storia, ma di tante infinite storie, piccole e grandi. Tutte accomunate dall’accogliente ambiente della penisola.