La sua presenza nella stratosfera (tra i 10 e i 50 chilometri di altezza) esercita un'azione filtrante nei confronti delle radiazioni solari ultraviolette, potenzialmente pericolose per la salute umana soprattutto per le persone che vivono alle alte e medie latitudini.
Non è un caso se di ozono si è cominciato a parlare più insistentemente a partire dal 1985 quando un team di scienziati pubblicò su Nature un articolo che dimostrava come durante la stagione primaverile la concentrazione di questo gas sopra il continente antartico tendeva ad assottigliarsi moltissimo, con punte che arrivavano al 60% rispetto alla media globale.
Erano le prime evidenze, raccolte attraverso immagini da satellite, del “buco” dell’ozono e quei dati portarono nell’arco di un biennio alla firma del protocollo di Montreal che è considerato uno dei più importanti successi nella storia delle Nazioni Unite perché riuscì a ridurre drasticamente la produzione e la dispersione delle sostanze di sintesi più dannose per l’ozono stratosferico come i clorofluorocarburi.
La causa del meccanismo di distruzione dell’ozono stratosferico era stata individuata ancora prima, durante la prima metà degli anni ’70, come ricordava Pietro Greco sulle pagine del nostro giornale in un articolo che ricostruiva i meriti di Mario Molina, Frank Sherwood Rowland e Paul Crutzen (che ricevettero poi il premio Nobel per la Chimica nel 1995).
Questo gas di fondamentale importanza per la vita sulla Terra è però contraddistinto da aspetti ambivalenti, non solo per gli effetti che può avere sulla salute in caso di esposizione a livelli che superano le soglie di criticità (l'ozono è infatti una delle componenti principali dello smog), ma anche perché potrebbe ricoprire un ruolo significativo nel riscaldamento globale. O, per essere più precisi, sono i cambiamenti nei livelli di ozono, riconducibili all'attività umana, che stanno portando questo gas ad influenzare anche il clima: nella parte più alta dell'atmosfera, dove esercita un'azione positiva, sta diminuendo. Al contrario nella parte più bassa, dove invece rappresenta un pericolo come inquinante e si forma a causa di reazioni chimiche tra inquinanti come i gas di scarico dei veicoli e altre emissioni, è in aumento.
A rivelare che l'ozono potrebbe indebolire uno dei meccanismi di raffreddamento più importanti della Terra, rendendolo un gas serra più significativo di quanto si pensasse, è uno studio pubblicato di recente su Nature Climate Change che ha scoperto come i cambiamenti dei livelli di ozono nell'atmosfera superiore e inferiore siano responsabili di quasi un terzo del riscaldamento osservato nelle acque dell'Oceano Antartico nella seconda metà del XX secolo.
An article published in @NatureClimate reports that ozone levels in the upper and lower atmosphere were responsible for the warming of ocean waters bordering Antarctica in the second half of the 20th century. https://t.co/I9tfQiEz3q pic.twitter.com/OOA1wwZ9qU
— Nature Portfolio (@NaturePortfolio) April 5, 2022
Il lavoro di ricerca, guidato da studiosi dell'Università della California Riverside, si è basato su una serie di analisi e sull'applicazione di modelli con l'obiettivo di comprendere l'impatto delle variazioni nei livelli di ozono nell'atmosfera sulle temperature delle acque dell'emisfero australe, isolando questi effetti da altre possibili influenze.
Le simulazioni dei modelli hanno mostrato che la diminuzione dell'ozono nella stratosfera e il suo aumento nella troposfera (la parte più vicina alla superficie terrestre) hanno contribuito al riscaldamento osservato nei primi due chilometri delle acque oceaniche dell'Oceano Antartico. Ad agire in modo importante sul calore è soprattutto la maggiore presenza di ozono nella troposfera visto che ad essa si deve il 60% del riscaldamento complessivo osservato nel periodo studiato, molto più di quanto si pensasse in precedenza.
"L'ozono vicino alla superficie terrestre è dannoso per le persone e l'ambiente, ma questo studio rivela che ha anche un grande impatto sulla capacità dell'oceano di assorbire l'eccesso calore dall'atmosfera", ha commentato Michaela Hegglin professoressa associata di chimica dell'atmosfera all'università di Reading, nel Regno Unito, e seconda autrice del paper.
Ragionando sui cambiamenti nei livelli di ozono nella stratosfera e nella troposfera "sappiamo da tempo che la perdita di ozono nell'alta atmosfera ha influenzato il clima nell'emisfero australe" ha aggiunto Hegglin precisando che il nuovo studio dimostra adesso che "gli aumenti dei livelli di ozono nella bassa atmosfera dovuti all'inquinamento dell'aria, che riguardano soprattutto l'emisfero settentrionale e che raggiungono anche l'emisfero australe, sono un problema altrettanto serio".
Occorrerà allora affrontare il problema anche alla luce di queste nuove conoscenze, così come è stato fatto poco meno di quaranta anni fa quando le scoperte sui danni causati dai clorofluorocarburi (Cfc) portarono alla graduale eliminazione, in gran parte del mondo, dei prodotti che contenevano queste sostanze così lesive nel ridurre il prezioso di ozono che ci protegge dai raggi ultravioletti. Senza però dimenticare che tra le diverse alternative che sono state inventate per sostituire i clorofluorocarburi ci sono anche i composti perfluorurati (Pfas), che nel corso del tempo si accumulano negli esseri umani e nell’ambiente e sono da anni sotto la lente dei ricercatori per i loro effetti sulla salute che non sono ancora del tutto noti.