SOCIETÀ

Russia e Cina: la conveniente ambiguità di Xi Jinping

Le sanzioni hanno colpito al cuore l’economia russa, che si trova oggi a un millimetro dal default, dall’incapacità di ripagare il proprio debito pubblico, di fatto isolata sullo scenario internazionale. I suoi bond sono oramai considerati junk, spazzatura. Il rublo vale oggi assai meno di un centesimo di dollaro, e il decreto approvato da Putin (che autorizza il pagamento in rubli delle obbligazioni di creditori stranieri appartenenti a paesi “non amici”) non eviterà il precipizio. Come, se non peggio, del default del 1998. Mercoledì prossimo, 16 marzo, scadranno cedole per 117 milioni di dollari (che non prevedono il pagamento in valuta russa), ma la Banca centrale russa ha già annunciato di aver congelato i pagamenti dei dividendi ai detentori esteri di bond. E a marzo ci sono altre tre scadenze: il 21 per 66 milioni, il 28 per altri 102, il 31 marzo per ulteriori 447 milioni, per un totale di 732 milioni di dollari. E la Russia, quei dollari, non li ha. L’agenzia Fitch ha deciso di declassare il rating della Federazione Russa da “B” a “C”. Mentre i più noti brand mondiali (dal settore alimentare all’energetico, dall’automobilistico al finanziario) hanno sospeso quasi contemporaneamente le loro attività in Russia, anche nel timore di un contraccolpo d’immagine, come se mantenere la sola presenza sul suolo russo, in un momento del genere, comportasse una sorta di “complicità” con il regime di Putin. Meglio prendere le distanze: attività sospese, poi si vedrà. Il quotidiano britannico The Guardian riporta l’opinione di Katia Fedorova, che cura un blog di moda e lifestyle su Telegram: «Penso che i russi siano in uno stato di shock mentre il loro mondo sta crollando alla velocità della luce. Ma la parte più spaventosa non è tanto la fuga dei marchi di lusso, ma quelli del mercato di massa come Mothercare che lasciano il paese. Il governo russo è riuscito a distruggere in soli 10 giorni tutti i collegamenti costruiti per 30 anni con il settore della vendita al dettaglio internazionale». Oggi la Russia è ufficialmente il paese più sanzionato al mondo, superando Iran, Siria e Corea del Nord: oltre 5mila le sanzioni “mirate” disposte nei suoi confronti (qui un approfondimento realizzato dalla piattaforma Castellum.AI).

La “neutralità per convenienza” imposta da Pechino

Difficile oggi, alla terza settimana di conflitto, immaginare una via d’uscita che possa in qualche modo essere “gradita” a Vladimir Putin (che il capo della Cia, William Burns, ha definito “frustrato e arrabbiato, ma non pazzo”), anche se nelle ultime ore la carneficina mirata di civili ucraini, con i bombardamenti lanciati perfino contro gli ospedali (a Mariupol e a Kiev) e le scuole, ha raggiunto proporzioni inimmaginabili, ingiustificabili, intollerabili. E il ministro degli esteri russo, Lavrov, ha confermato che non di errore si è trattato, ma di «una decisione consapevole e deliberata dell’esercito russo» perché l’ospedale era stato «rilevato dal battaglione Azov, dunque un obiettivo militare». La via del negoziato sembra tuttavia ancora prevalere sull’ipotesi, ancora troppo rischiosa, dell’intervento militare diretto: con la Casa Bianca che preferisce ancora attendere, lavorando dietro le quinte; con la diplomazia europea che nonostante il gran daffare non riesce a spostare gli equilibri; e con la Turchia che, almeno finora, non convince come cerniera di mediazione. Cresce così l’attesa di capire quale ruolo prenderà la Cina, che finora ha galleggiato su una sorta di “neutralità di convenienza”, incoraggiando da un lato il negoziato, ma senza mai condannare dall’altro l’invasione russa, anzi accusando gli Stati Uniti e la Nato di aver in qualche modo “provocato” l’attacco: «Hanno spinto la tensione tra Russia e Ucraina a un punto di rottura», ha dichiarato mercoledì scorso il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian. Un’ambiguità quasi ostentata da Pechino, che dopo aver sostenuto “il rispetto della sovranità e l’integrità territoriale” («e l’Ucraina non fa eccezione», aveva precisato il ministro degli esteri cinese Wang Yi alla vigilia dell’invasione) ha condannato l’utilizzo delle sanzioni. Pur precisando, sempre parola ufficiale di Wang Yi, che «la situazione attuale non è quella che vogliamo vedere. La priorità assoluta ora è che tutte le parti esercitino la moderazione necessaria per evitare che l’attuale situazione in Ucraina peggiori o addirittura sfugga al controllo. La sicurezza della vita e della proprietà dei civili dovrebbe essere efficacemente garantita e, in particolare, le crisi umanitarie su larga scala devono essere prevenute». Evidentemente il massacro di civili, e le continue violazioni del cessate il fuoco per garantire i corridoi umanitari, non sono stati eventi sufficienti per far pronunciare a Pechino una parola ferma di condanna nei confronti del Cremlino. Nell’ultima assemblea generale delle Nazioni Unite, che ha chiesto alla Russia di porre fine alle operazioni militari in Ucraina, la Cina (con altri 34 paesi) si è astenuta, mentre 5 sono stati i voti contrari. Eppure il presidente Xi Jinping, lo scorso 8 marzo, si è detto «addolorato nel vedere riaccendersi in Europa le fiamme della guerra».

Dunque prudenza. La “connessione” tra Pechino e Mosca (che condividono 4.300 km di confine) è senz’altro un elemento da tenere in seria considerazione, una carta potenzialmente decisiva per arrivare a una soluzione della crisi. Ma Xi Jinping sa perfettamente che le carte giuste vanno giocate a tempo debito. Il rapporto commerciale tra i due paesi è solido: lo scorso anno ha raggiunto il record di 147 miliardi di dollari, in netto aumento rispetto all’anno precedente. E appena il mese scorso Putin e Xi (nell’incontro del 4 febbraio scorso a Pechino, venti giorni prima dell’attacco all’Ucraina) avevano annunciato di puntare a quota 250 miliardi entro il 2024. Ma la Cina è anche il principale partner commerciale dell’Ucraina, che ricopre un ruolo strategico nell’attuazione della Belt and Road Initiative (la “Nuova via della seta”, il colossale piano strategico cinese di espansione che punta a collegare, soprattutto in chiave commerciale, l’Europa e l’Africa orientale con la Cina). Ebbene l’Ucraina, nella strategia di Pechino, rappresenta una sorta di porta d’accesso all’Unione Europea, uno snodo di transito (il corridoio ferroviario passa dall’Ucraina per arrivare in Polonia). Perciò l’instabilità attuale non è una buona notizia per Xi Jinping, che continua a mantenere il focus della sua azione politica nella rivalità con gli Stati Uniti, ma che comunque non è disposto a fare da scudo a Putin “a prescindere” e senza tornaconti. Come ha spiegato Charles Kupchan, politologo e senior fellow del Council on Foreign Relations, intervistato pochi giorni fa da Formiche.net: «Sotto la superficie i cinesi sono irritati. Pechino persegue obiettivi molto diversi da Mosca. È più interessata a un’erosione graduale dell’ordine mondiale a guida americana piuttosto che alla sua distruzione improvvisa. Putin è “un piantagrane”, si rafforza nella distruzione. Xi ha più di un buon motivo per trarre vantaggio dalla stabilità geopolitica e dall’interdipendenza economica globale. È molto meno interessato al caos, preferisce lavorare costantemente alla creazione di un sistema internazionale non più dominato dalle democrazie occidentali». Kupchan respinge invece l’ipotesi di un “patto di non ingerenza” tra Russia e Cina, che possa in qualche maniera incoraggiare un’offensiva futura della Cina su Taiwan: «Non sono d’accordo», risponde il politologo. «I cinesi stanno osservando da vicino la condanna globale della Russia e preferiscono non imboccare la stessa strada. All’Assemblea generale dell’Onu 141 nazioni hanno votato contro Mosca: e la Cina è straordinariamente sensibile alla sua reputazione internazionale. Credo poi che a Pechino non siano tanto ingenui da mettere sullo stesso piano la reazione della Nato verso l’Ucraina alla capacità di reazione degli Stati Uniti di fronte a un’aggressione a Taiwan. Un intervento americano a Taipei sarebbe molto più probabile». Il 2 marzo scorso una delegazione americana è atterrata a Taipei proprio per ribadire il proprio supporto alla presidente Tsai Ing-wen.

Default russo e i rischi di contagio

In questo scenario il probabile default russo, ulteriormente aggravato dal protrarsi ostinato dell’invasione in Ucraina, non è una buona notizia per la Cina. L’economista Stephen Roach, ricercatore presso la Yale University, l’ha spiegata così alla testata americana CNBC: «Se la Russia andrà in default sul suo debito ci saranno ampi effetti di ricaduta sul debito sovrano nei mercati emergenti di tutto il mondo. E la Cina non può permettersi di rimanere allineata con la Russia, mentre Putin sta organizzando questa orribile campagna militare». Il rischio per Pechino, per dirla con altre parole, è “un contagio per complicità”. Per non aver saputo fermare, o comunque arginare, il disegno di Putin. E attenzione: il “contagio” potrebbe toccare anche le più importanti aziende tecnologiche cinesi, in un effetto domino difficilmente controllabile. Come ha spiegato Gina Raimondo, segretario al Commercio degli Stati Uniti, in un’intervista al New York Times: «Se gli Stati Uniti dovessero scoprire che una società come la Semiconductor Manufacturing International Corporation, a Shanghai, vende i suoi chip in Russia, potremmo impedire loro di utilizzare le nostre apparecchiature e il nostro software». Una linea rossa per le aziende tecnologiche cinesi: chi la oltrepassa sarà esclusa dalle forniture di cui hanno bisogno per continuare a operare.

Da qui la prudenza di Xi Jinping, che non commetterà l’errore di sposare apertamente la linea di Putin, ma senza abbandonarlo al suo destino (e lunedì scorso il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, ha ribadito che “il partenariato Russia-Cina durerà e crescerà, per quanto precaria e sfidante possa essere la situazione internazionale"). Il presidente cinese vuole invece massimizzare il profitto dalla crisi russa: mantenere l’alleanza con Mosca come argine alla “prepotenza” statunitense, ma al tempo stesso una neutralità rispetto all’aggressione militare (con i continui richiami al dialogo e alla “partecipazione ai negoziati”) che gli consentano di non precludersi i mercati occidentali. Un’azzardata prova d’equilibrismo. Scrive Michael Schuman, senior fellow presso il Global China Hub del Consiglio Atlantico: «Dall’inizio della guerra le insidie della partnership della Cina con Putin si sono rivelate fin troppo chiaramente. Pechino ha cercato di fare quello che fa di solito, ballare il tip tap tra tutte le parti e fingere di essere neutrale, ma si ritrova un'eccezione tra le maggiori potenze mondiali. Nessuno si è fatto ingannare da dove risiedono le simpatie di Xi». Come dire: l’equidistanza non basterà. Schuman però spinge lo sguardo più in là, arrivando a disegnare la vera posta in gioco per la Cina: «Le relazioni della Cina con la Russia stanno diventando un banco di prova per il ruolo che i leader di Pechino vogliono svolgere nel mondo», scrive. «Affermano ripetutamente di favorire la “coesistenza pacifica” e la fine di una “mentalità della Guerra Fredda” divisiva. Ma schierandosi con Putin, anche passivamente, nella sua anacronistica ricerca di ricreare l’impero sovietico, Xi sembra essere solo un altro dittatore in ascesa. Dal modo in cui Pechino gestirà le sue relazioni con Mosca sarà possibile capire se la Cina potrà essere definita una grande potenza». E’ questo il dilemma, oggi, sul tavolo di Xi Jinping: disinnescare per via diplomatica la crisi Ucraina (e intestarsi il merito di una catastrofe evitata) o approfittare degli eventi per indebolire l’influenza della Nato e degli Stati Uniti?

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