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In Salute in movimento. Quando l'allenamento non è solo fisico, ma anche mentale

L'attenzione al tema della salute mentale nel mondo dello sport probabilmente non è mai stata alta come in queste ultime olimpiadi, e lo hanno dimostrato non solo il ritiro di Simone Biles, la ginnasta statunitense che ha preferito rinunciare temporaneamente alle gare per dedicarsi alla lotta contro i suoi “demoni”, ma anche le dichiarazioni di Marcell Jacobs, vincitore dell'oro olimpico nei 100 m e di Alessandro Sibilio, finalista nei 400 m ad ostacoli, i quali hanno sottolineato quanto il supporto delle loro mental coach sia stato decisivo per aiutarli a superare le difficoltà incontrate lungo il percorso.

La preparazione atletica passa anche attraverso il benessere psicologico, specialmente quando si tratta di sportivi che competono ad altissimo livello e che sottopongono non solo il loro corpo, ma anche le loro energie psichiche, a sfide estremamente impegnative. Anche la forza mentale, come quella fisica, richiede un allenamento costante e l'aiuto di un professionista.

“In queste olimpiadi abbiamo spesso sentito parlare dell'importanza del mental coach.”, osserva Marta Ghisi, professoressa di psicologia dello sport all'università di Padova. “È necessario però fare alcune precisazioni per capire meglio cosa si intende con questo termine. Infatti, questa espressione viene spesso usata indistintamente per indicare sia persone laureate in psicologia con una formazione specifica nell'ambito dello sport, sia persone senza una formazione psicologica. Queste ultime, non possedendo le conoscenze teoriche e le competenze applicative relative al funzionamento mentale, non sono in grado di selezionare e utilizzare correttamente le tecniche volte a promuovere l’acquisizione di abilità mentali. Non bisogna dimenticare, infatti, che ogni atleta ha un funzionamento mentale peculiare e lo psicologo dello sport svolge un lavoro sartoriale, individuando le tecniche specifiche adatte ad aiutarlo a superare le sue difficoltà o a massimizzare le sue potenzialità. Inoltre, la figura professionale dello psicologo/a, essendo iscritta a un albo professionale, è tenuta al mantenimento della privacy, al segreto professionale, e al rispetto delle norme etiche e deontologiche finalizzate a tutelare l'atleta e la sua salute.

L'ambiguità nell'uso di questo termine deriva dal fatto che spesso anche gli psicologi dello sport si fanno chiamare, in maniera riduttiva, mental coach. Il motivo è che questa definizione “spaventa” di meno, poiché spesso e volentieri è ancora molto presente lo stigma della patologia evocato dalla parola “psicologo”.

Ciò che è importante, perciò, è veicolare il messaggio che lo psicologo formato nell'ambito sportivo non tratta per forza la patologia. Al contrario, lavora per il benessere dell'atleta e per aiutarlo a tirare fuori le sue potenzialità. Naturalmente, è ovvio che anche a un atleta, come a ogni persona, può capitare di vivere una condizione di difficoltà personale o di manifestare un disturbo mentale, e in quel caso la figura dello psicologo, e non per forza quello dello sport, può essere d'aiuto”.

La salute mentale degli atleti è ora più al centro dell'attenzione degli allenatori, degli sportivi stessi e anche dell'opinione pubblica. Come spiega la professoressa Ghisi, infatti, “la letteratura scientifica ormai attesta da tempo il ruolo chiave della componente psicologica nel conseguimento di risultati sportivi e anche nel processo di preparazione dell'atleta. Lo psicologo dello sport, infatti, aiuta l'atleta ad allenare le sue abilità mentali. Anche per il training mentale, così come per quello fisico, tecnico e tattico, servono impegno, motivazione, costanza e periodizzazione. Oggi gli atleti sono molto più consapevoli che l'allenamento mentale può fare la differenza, perché facilità l'espressione di tutte le loro potenzialità.

Lo psicologo dello sport aiuta l'atleta a raggiungere la sinergia tra mente e corpo utilizzando diversi tipi di allenamento: le cosiddette tecniche body to mind, come ad esempio il rilassamento muscolare o il biofeedback, che favoriscono il benessere psichico, e quelle mind to body, tecniche mentali di cui beneficia anche la prestazione fisica, come ad esempio l'attività del dialogo interno o della ristrutturazione cognitiva, che consiste nell'individuare e riformulare quei pensieri che sono disfunzionali per la prestazione sportiva, perché per esempio deconcentrano l'atleta e non lo aiutano a rimanere focalizzato.

Con queste attività, lo psicologo lavora in funzione del miglioramento della prestazione dell'atleta, ma senza mai dimenticare di mettere in primo piano la sua salute mentale e il suo benessere psicofisico. Spesso, infatti, gli atleti o gli allenatori si rivolgono a uno psicologo dello sport per ottenere un incremento della prestazione sportiva quando all'atleta viene richiesto un salto di qualità importante, come un passaggio di categoria, oppure un aiuto per recuperare da un infortunio. In realtà, il raggiungimento di questi obiettivi è una conseguenza di un percorso psicologico strutturato nel tempo e condiviso non solo con l'atleta ma anche con i membri dello staff che lo affiancano”.

“Una volta era diffusa l'idea che per diventare un atleta d'élite bisognasse avere alcune doti innate, tra cui la capacità di gestire la tensione, lo stress, e anche i media, che spesso contribuiscono a caricare le aspettative di un campione o a demotivarlo con commenti poco lusinghieri”, continua la professoressa Ghisi. Negli ultimi anni, invece, la psicologia dello sport ha assunto più valore: esiste infatti una consistente letteratura scientifica che dimostra l'importanza delle componenti mentali nel conseguimento di risultati sportivi. In questa olimpiade, tutto questo è stato evidenziato anche e soprattutto grazie agli atleti che stanno abbattendo molti tabù, tra cui quello del non dover parlare della propria salute mentale.

La ginnasta Simone Biles, ad esempio, quando ha annunciato il suo ritiro dalle gare olimpiche di quest'anno, ha parlato chiaramente di quei “demoni”, o pensieri intrusivi, che non le consentivano di mantenere il grado di concentrazione necessario per svolgere correttamente gli esercizi senza infortunarsi. Allo stesso modo, Tom Daley, il tuffatore che è stato ripreso sugli spalti mentre lavorava a maglia, ha dichiarato che quello è il suo modo di riuscire a gestire la pressione prima di una gara”.

Sono infatti diverse le difficoltà che un atleta può incontrare lungo il percorso, e un supporto psicologico può essere fondamentale per riuscire a superarle o, quantomeno, ad affrontarle più serenamente.

“Oltre alla pressione che gli atleti d'élite devono imparare a gestire per ottimizzare le loro prestazioni, che a volte viene chiamata ansia competitiva, un'altra difficoltà può riguardare la gestione dell'errore o della sconfitta”, spiega la professoressa Ghisi. “Spesso, ad esempio, succede che un atleta che ha sbagliato un esercizio continui a ripensare a quel passo falso e alle sue conseguenze, aumentando la probabilità che le prestazioni successive calino di livello. Non dimentichiamo, infatti, che anche gli atleti sono delle persone che sbagliano e perdono. La capacità di imparare dagli errori e dalle sconfitte può essere acquisita anche grazie al supporto psicologico, che può aiutare l'atleta a individuare i suoi margini di miglioramento.

Paradossalmente, anche la gestione della vittoria può rappresentare un ostacolo. Dopo aver vinto una competizione importante, un atleta ha a che fare con il successo e un alto livello di popolarità, che possono deconcentrarlo nella sua preparazione. È importante ricordare, infatti, che gli sportivi, per raggiungere certi traguardi, devono allenarsi per ore e ore con grandissima costanza.

Per non parlare poi delle difficoltà che i campioni a fine carriera possono incontrare nella cosiddetta career transition, ovvero la transizione verso un nuovo lavoro o una nuova vita. Si tratta di un momento critico che possono affrontare meglio con l'aiuto della psicologia dello sport. Anche il nostro Ateneo, ad esempio, ha investito nella doppia carriera studente-atleta perché, non solo l’attività sportiva contribuisce a migliorare l’apprendimento e le funzioni cognitive, ma completare la propria formazione accademica può rappresentare uno strumento da utilizzare quando la carriera agonistica è terminata. Sapere di aver costruito un altro percorso, parallelamente a quello sportivo, aiuta ad affrontare meglio questa transizione anche da un punto di vista emozionale”.

La pandemia, naturalmente, ha complicato ancora di più la situazione. L'incertezza che caratterizza questo momento storico ha inciso, infatti, anche sul benessere psicofisico degli sportivi.

“La pandemia ha posticipato di un anno le competizioni, obbligando gli atleti a riprogrammare completamente il loro allenamento. Non è stato facile per loro veder spostare questo traguardo di un anno. Le dichiarazioni dell'anno scorso di Gianmarco Tamberi, ad esempio, esprimevano una grande amarezza di fronte alla prospettiva di dover aspettare un altro anno per gareggiare, dopo aver rinunciato alle olimpiadi di Rio a causa di un infortunio”, ricorda la professoressa Ghisi.

“Ci sono poi alcuni atleti che si sono ammalati di Covid-19, come ad esempio la ginnasta Vanessa Ferrari, che ha anche dovuto subire più di un'operazione al tendine d'Achille.

Insomma, per molti atleti l'ultimo anno e mezzo di pandemia è stato davvero duro, anche perché hanno dovuto allenarsi in condizioni non ottimali a causa del lockdown. Il mental training permette loro di acquisire alcune abilità che possono aiutarli ad affrontare altri problemi della loro vita quotidiana e che possono quindi rivelarsi utili anche nella gestione delle preoccupazioni derivanti dalla pandemia e dal lockdown. Un compito fondamentale dello psicologo dello sport, infatti, è rendere gli atleti autonomi, mettendoli nella condizione di fronteggiare da soli le difficoltà che incontreranno nella loro carriera sportiva e nella vita personale”.

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