SCIENZA E RICERCA
Salute a tutti i costi. Quanto è sostenibile la ricerca farmaceutica?
Lukas Barth per Reuters
Siamo abituati a ragionare in termini di sostenibilità quando dobbiamo prendere un mezzo di trasporto, quando scegliamo cosa mettere nel piatto, o quali detergenti e detersivi utilizzare. O ancora quando differenziamo i nostri rifiuti. Diverse app ci aiutano a calcolare la nostra impronta ecologica, eppure ogni volta che si parla di sostenibilità c’è un intero settore, fondamentale per la nostra vita e il nostro benessere, che viene escluso dal conteggio: è il comparto della salute.
Fermo restando che la salute è un diritto imprescindibile e che curarci resta la priorità, quanto costano all’ambiente i farmaci e le terapie che utilizziamo? Quante emissioni genera il mantenerci in salute? E come possiamo migliorare la sostenibilità di questo settore? A queste “scomode” domande risponde il saggio “Salute a tutti i costi. La sostenibilità della ricerca farmaceutica tra ambiente, economia e società” (Codice Edizioni, 2022) della chimica e divulgatrice scientifica Nicole Ticchi.
Decenni di ricerca e migliaia di principi attivi
Partiamo da un dato: oggi sul mercato sono presenti oltre 3.000 principi attivi e, in media, per ognuno di loro ci sono voluti circa 14 anni di ricerche e un investimento pari a 985 milioni di euro, secondo le stime più recenti. Senza contare che molti di questi farmaci sono disegnati su corpi maschili o hanno costi elevati per la stragrande maggioranza della popolazione mondiale.
Nicole Ticchi solleva quindi anche il problema della sostenibilità economica e sociale della sanità, ma il focus di “Salute a tutti i costi” resta l’ambiente. Per questo il saggio di Nicole Ticchi è quanto mai necessario e calato perfettamente nei tempi: la sostenibilità economica e sociale della salute non è più “indicibile”. Quella ambientale, invece, ancora lo è, nonostante siamo in pieno Antropocene, ad affrontare timidamente la crisi climatica e una pandemia ancora in corso. La salute, certo, viene prima di tutto – Ticchi lo esplicita subito – ma non significa che anche questo comparto, come tutti gli altri, non possa migliorare la sua impronta ecologica, rendendola più leggera. Anche perché continuare a curare noi stessi facendo ammalare il pianeta non è un’idea saggia, visto che l’inquinamento ambientale ha ripercussioni anche sulla salute umana.
«La pandemia ha avuto un piccolo merito: ci ha aperto gli occhi sul numero dei rifiuti generati dal comparto sanitario» spiega a Il Bo Live Nicole Ticchi. «Ci siamo preoccupati dell’impatto ambientale delle mascherine in cui finivano per incastrarsi gli uccelli che vivono in città, o di quelle arrivate in mare, tra le fauci delle tartarughe marine o a cui si sono aggrappati i cavallucci marini con le loro code. Ma non si tratta solo di rifiuti (per lo più speciali) e del loro fine vita: questi sono solo la punta dell’iceberg» sottolinea Ticchi.
«Nel processo di ricerca e produzione di un farmaco – che prevede tantissimi step per garantirne l’efficacia e la sicurezza in primis – ci sono moltissimi altri fattori che contribuiscono alla sua impronta ambientale: l’approvvigionamento delle materie prime e il loro trasporto che spesso avviene su grandi distanze (ne abbiamo avuto un esempio durante la pandemia, quando mancavano i reagenti per i tamponi che venivano prodotti in Cina); c’è poi il consumo energetico di tutto il comparto sanitario dalle aziende ai laboratori, passando per ospedali e case di cura che spesso necessitano di frigoriferi, macchinari e impianti di climatizzazione degli ambienti con alti consumi. Si deve considerare poi il trasporto degli stessi medicinali che devono raggiungere gli ospedali e i banconi delle farmacie (pensiamo ai vaccini anti-Covid che hanno bisogno di una catena del freddo), e il trasporto di medici, infermieri e ricercatori che operano nel settore. E infine nel calcolo, va inserito anche il consumo energetico dei server su cui vengono archiviati i dati sanitari, da quelli dei ricercatori a quelli dei laboratori di analisi e degli ospedali».
Il settore sanitario come quinto emettitore al mondo
Come racconta Nicole Ticchi nel suo libro, qualcuno ha provato a stimare l’impronta ecologica di un simile colosso e il risultato non è molto green: se il settore sanitario fosse uno Stato, sarebbe il quinto più grande emettitore di gas serra del pianeta.
Oltre a rifiuti ed emissione, c’è un altro elemento poi da considerare e sono i danni ambientali provocati dagli stessi farmaci, soprattutto quelli di uso comune. «Smaltiamo dal 30 al 90% dei medicinali che assumiamo e i residui – i metaboliti che produciamo – li rilasciamo non solo negli scarichi ospedalieri, ma anche e soprattutto negli scarichi domestici. La porta d’ingresso principale con cui i farmaci entrano nell’ambiente sono proprio gli scarichi e le acque reflue» racconta Ticchi, che nel suo saggio sceglie un esempio perfetto per illustrare le possibili conseguenze dell’uso dei farmaci: dall’altra parte dell’Atlantico, nelle acque del Lago Michigan, la presenza massiccia della metformina (un farmaco utilizzato per il diabete) ha indotto la femminilizzazione degli esemplari di sesso maschile di alcuni pesci, compromettendone le capacità riproduttive. In India, Pakistan e Nepal, invece, è stato il diclofenac (il principio attivo del Voltaren per intenderci) a creare non pochi danni. Questo antinfiammatorio non steroideo, autorizzato anche per uso veterinario, in breve tempo era diventato estremamente popolare tra gli allevatori indiani, tanto da occupare circa l’80% del mercato dei farmaci per il bestiame. Così ha cominciato a risalire la catena alimentare e ha avuto un effetto inaspettato sugli avvoltoi. Se agli animali da pascolo il diclofenac dava sollievo, per gli avvoltoi – che si nutrivano delle carcasse delle mucche e delle capre che avevano assunto il farmaco nelle 72 ore precedenti – era puro veleno: era tossico a livello renale. E infatti le popolazioni di avvoltoi in Asia, a partire dagli anni ’90 hanno subito un crollo maggiore del 95%, finché il diclofenac non è stato messo al bando in questi paesi.
Eco-farmacovigilanza: monitoraggio del ciclo di produzione dei farmaci
«Da qualche anno la consapevolezza sul tema è aumentata. La grande preoccupazione per il cambiamento climatico sta determinando una svolta sostenibile anche nella filiera della salute. Basti pensare che oggi tutto il ciclo vitale di un farmaco viene controllato in termini di sostenibilità e impronta ecologica grazie alla eco-farmacovigilanza» continua Nicole Ticchi. «È una vera e propria vigilanza sull’impatto ambientale dei farmaci, che disciplina la ricerca, la produzione, lo sviluppo e anche lo smaltimento dei farmaci. Finalmente c’è una crescente consapevolezza e sensibilità verso un tema di grande rilevanza per la salute del pianeta».
E anche nel mondo della salute le soluzioni sono quelle che conosciamo: abbattere i consumi, utilizzare energie rinnovabili; recuperare, riutilizzare e riciclare solventi e reagenti per esempio, o parti di alcuni dispositivi; produrre meno rifiuti e trovare alternative sicure dal punto di vista ecologico all’incenerimento. E infine anche la tecnologia può venirci in aiuto, dalle visite telematiche all’ideazione di nuovi farmaci attraverso algoritmi e programmi in grado di disegnare molecole “su misura”, prima ancora di provare a produrle. «La strada è seguire il principio OneHealth – una sola salute globale: è inutile e controproducente curare noi stessi, facendo ammalare il pianeta. Ci ritroveremmo solo con altri problemi di salute da curare. Sostenere la nostra salute, insieme a quella del pianeta, rendendo il comparto della salute più sostenibile, è l’unica strada percorribile» conclude Nicole Ticchi.