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“Un mondo in armonia con la natura”: questa è la visione che ha ispirato esperti e decisori politici nella stesura del testo del Global Biodiversity Framework, il trattato che stabilisce gli obiettivi di tutela del mondo naturale da qui al 2030. Il documento, ratificato a dicembre 2022 dai 196 Paesi aderenti alla Convenzione sulla Diversità Biologica (Convention on Biological Diversity, CBD), si compone di 23 target da raggiungere entro il 2030. Due di questi, in particolare, sono saliti agli onori delle cronache per la loro chiarezza e importanza: si tratta del target 3, che consiste nell’ampliare le aree protette fino al 30% degli ecosistemi terrestri e marini globali entro il 2030; e del target 2, che prevede “di ripristinare in modo efficace, entro il 2030, almeno il 30% delle aree degradate in ecosistemi terrestri, d’acqua dolce, costieri e marini”.
L’Unione Europea, che ad oggi è tra le entità politiche più all’avanguardia nel mondo per le politiche e le norme sul clima e sulla biodiversità, si è recentemente dotata di uno strumento legislativo che, insieme ad altri emanati nel corso degli ultimi decenni ai fini della conservazione del mondo naturale, dovrebbe consentirle di raggiungere, su scala regionale, gli obiettivi – condivisi a livello globale – di arrestare e invertire il declino della natura nell’Unione, di contribuire alla mitigazione e all’adattamento al cambiamento climatico e di ridurre le pressioni sulla biodiversità globale.
Lo strumento legislativo in questione è la Nature Restoration Law, la legge sul ripristino della natura, approvata – a sorpresa – dal Consiglio Europeo a giugno 2024, dopo anni di limature del testo e di tentennamenti da parte dei Paesi membri e della stessa Commissione.
Non sarà sfuggito agli occhi del lettore che in entrambi questi documenti trova una posizione centrale il concetto di ripristino degli ecosistemi (ecosystem restoration, nel gergo scientifico internazionale), un concetto sempre più diffuso ma ancora sfuggente.
Come viene definito nel Global Biodiversity Framework, il concetto di ripristino “si riferisce al processo di gestire attivamente il recupero di un ecosistema che è stato degradato, danneggiato o distrutto”. Tra i principali scopi delle attività di restoration vi sono quello di riportare un ecosistema ad uno stato di integrità della sua struttura, composizione e diversità simile a quello precedente alla degradazione, o quello di aumentare le funzioni e i servizi ecosistemici in un ambiente trasformato.
Ma quali sono gli interventi concreti che possono essere effettivamente considerati azioni di ripristino di un ecosistema, e a quali tipi di ecosistema si applicano?
Innanzitutto, ogni tipo di ecosistema può essere oggetto di ripristino ecologico: le cause di degrado, danno o distruzione sono molte e diverse (solitamente, di origine antropica), così come le soluzioni possibili per arrestare e invertire il processo di degradazione.
È importante inoltre sapere che la restoration è una pratica diversa rispetto alle Nature-based Solutions (soluzioni basate sulla natura). Queste ultime, infatti, sono definite dalla IUCN (International Union for the Conservation of Nature) come “azioni per proteggere, gestire in modo sostenibile e restaurare ecosistemi naturali e modificati che contribuiscono ad affrontare in modo efficace e adattativo le sfide sociali, offrendo allo stesso tempo benefici alla natura e alle persone”: in questo caso, dunque, ci si concentra su interventi che hanno come obiettivo ultimo il garantire che il mondo naturale possa continuare a fornire benefici alla società umana. Al contrario, come abbiamo visto, nel caso della restoration l’accento è posto sul riportare l’ecosistema in questione a una presunta condizione originaria (nelle accezioni più ristrette), oppure, più in generale, sul rivitalizzare l’ecosistema per rafforzarlo e renderlo autosufficiente.
Nel mettere in pratica azioni di restoration, dunque, si compie un passo in avanti rispetto alla “semplice” protezione dell’ambiente naturale dallo sfruttamento e dal possibile danneggiamento per mano dell’essere umano. La protezione, infatti, mira a tutelare lo stato attuale degli ecosistemi ancora intatti; la restoration, invece, mira a recuperare e riportare in buone condizioni di salute ecosistemi che hanno già subìto le conseguenze negative dell’intervento della nostra specie, e che hanno dunque perso la loro ricchezza in termini di biodiversità, struttura e funzione, e quindi delle funzioni ecologiche e dei benefici che essi offrono alle persone.
Nel testo della Nature Restoration Law è presente un intero annesso che elenca una serie di possibili interventi di ripristino degli ecosistemi di varia natura e portata. Tra questi, ad esempio, la riumidificazione di zone umide bonificate o il ristabilimento del corso naturale dei fiumi attraverso l’eliminazione di ostacoli come dighe e argini; la diversificazione della struttura ecologica delle foreste, ad esempio reintroducendo specie native; l’incremento delle aree agricole gestite secondo i principi dell’agroecologia, come l’agricoltura biologica e l’agroselvicoltura, e la riduzione dell’uso di pesticidi e fertilizzanti sintetici; la riconversione in siti naturali delle aree commerciali o industriali dismesse e delle cave abbandonate.
È importante che le iniziative di restoration, perché siano efficaci nel tutelare la biodiversità e non risultino nei fatti controproducenti, siano progettate tenendo adeguatamente in considerazione il tipo di ecosistema al quale vengono applicate. Un esempio di attività di ripristino oggi molto in voga, ma spesso attuata in maniera errata, è la riforestazione. Si tratta di un tipo di intervento di grande importanza, che nasce per far fronte ad una delle forme più impattanti e visibili di degradazione ambientale causata dall’uomo: la deforestazione. Secondo la FAO (Food and Agriculture Organization), ogni anno vengono tagliati circa 10 milioni di ettari di foreste (per avere un termine di paragone, consideriamo che l’Italia copre una superficie di poco più di 30 milioni di ettari). Anche se, nel complesso, negli ultimi anni le superfici boscate sono aumentate nel mondo, e i tassi di deforestazione sono diminuiti, c’è ancora molto da fare per tutelare gli ecosistemi forestali, che offrono – non solo alla specie umana –servizi ecosistemici fondamentali.
Come spiegano alcuni ecologi sulla rivista scientifica Science, negli ultimi anni i progetti di riforestazione sono aumentati rapidamente in tutto il mondo, ma questo ha messo seriamente a rischio diversi ecosistemi non forestali (ad esempio, ecosistemi erbosi come le savane o le praterie tropicali) che diventano erroneamente target di piantumazione di alberi, perdendo così la propria diversità, struttura e funzionalità, e andando in alcuni casi persino incontro all’estinzione.
In casi simili, un intervento che dovrebbe ripristinare l’ecosistema si trasforma invece nella causa della sua degradazione: “L’aumento su scala globale della copertura arborea negli ecosistemi aperti – spiegano gli autori dell’articolo – rappresenta una grave minaccia non solo per gli ecosistemi stessi ma per l’intera società […]. È essenziale riconoscere le diverse caratteristiche della degradazione negli ecosistemi forestali e in quelli non forestali, perché questo determina le azioni di ripristino da intraprendere e permette di ripristinare con maggiore consapevolezza sistemi realmente degradati. Insomma, è importante piantare il giusto numero di alberi della giusta specie e nel posto giusto”.
Questo approccio va applicato a tutte le forme di restoration: è importante che questi interventi siano calibrati in base al tipo di ecosistema e alle sue specificità, e che l’obiettivo ultimo non sia il benessere umano (declinato, in gergo tecnico, in termini di servizi ecosistemici) ma, prima di tutto, il benessere e la salute degli ecosistemi stessi e dei loro abitanti.