SCIENZA E RICERCA

Microbioma e salute. Scoperto il batterio intestinale che cresce grazie al caffè

Il caffè è una delle bevande più diffuse al mondo, apprezzata non solo per il gusto e l’aroma, ma anche a causa dei suoi benefici per la salute. Diversi studi suggeriscono infatti che il consumo di caffè riduca il rischio di sviluppare problemi cardiovascolari, diabete, malattie del fegato, e non solo. Non conosciamo però i meccanismi molecolari che veicolano questi effetti positivi: non è chiaro il modo in cui il caffè – così come molti altri cibi – interagisca con il nostro microbioma, ovvero l’insieme di quei batteri “buoni” che vivono nel nostro corpo e svolgono un ruolo cruciale per la digestione e la difesa contro gli agenti patogeni.

Un gruppo di ricerca del Dipartimento di biologia cellulare, computazionale e integrata dell’Università di Trento ha deciso di approfondire la questione. Gli autori hanno scoperto che il consumo di caffè stimola la crescita di un batterio in particolare, il Lawsonibacter asaccharolyticus, la cui quantità è significativamente più alta nel microbioma delle persone che bevono caffè regolarmente, rispetto a quelle che non lo consumano.

Lo studio, pubblicato su Nature microbiology con la prima firma del ricercatore Paolo Manghi, si inserisce in un filone di ricerca che approfondisce l’effetto di cibi specifici sul microbioma intestinale. “Il corpo umano ospita diverse comunità microbiche fondamentali per il nostro benessere”, spiega Paolo Manghi. “In particolare, i batteri intestinali giocano un ruolo cruciale nella risposta dell’organismo agli agenti esterni, come ad esempio i farmaci, le sostanze inquinanti e, soprattutto, il cibo.

Diversi studi hanno approfondito la connessione tra microbioma intestinale, alimentazione e salute. Alcuni di questi lavori hanno dimostrato il collegamento tra determinate alterazioni del microbioma e l’insorgenza di specifici disturbi, tra cui l’obesità. Per questo motivo, riuscire a comprendere il modo in cui il nostro intestino risponde ai cibi che ingeriamo potrebbe darci la possibilità di progettare diete personalizzate basate su specifiche esigenze di salute.

Si tratta, tuttavia, di una sfida estremamente complessa. La varietà delle molecole ingerite e la complessità del microbioma intestinale ci rendono ancora molto lontani dalla piena comprensione dei meccanismi in gioco. Ad esempio, sebbene l’evidenza epidemiologica su larga scala, basata su milioni di individui, suggerisca che il consumo di caffè riduca il rischio di sviluppare malattie croniche come il diabete e l'obesità, non conosciamo ancora i meccanismi molecolari che spiegano le ragioni di questi effetti benefici”.

Manghi e coautori hanno deciso di incentrare la loro ricerca sul caffè perché le persone sono solitamente in grado di riferire piuttosto accuratamente quanto ne bevano e con quale frequenza. “Questo rende il caffè l’alimento perfetto di cui calcolare il consumo attraverso i questionari sulle abitudini alimentari”, sottolinea Manghi. “Lo stesso non vale per la maggior parte degli altri cibi”. Inoltre, il consumo episodico di caffè è molto raro: il mondo sembra essere diviso, per certi versi, tra chi beve il caffè regolarmente e chi non ne consuma affatto. “Questa particolarità ci consente di distinguere facilmente diversi pattern all’interno della popolazione”, prosegue Manghi. “È possibile, quindi, confrontare il microbioma delle persone che bevono diverse quantità di caffè con quello di chi invece non ne consuma affatto”.

“La nostra principale coorte constava approssimativamente di 22.800 individui provenienti dagli Stati Uniti e dal Regno Unito”, prosegue Manghi. “Di questi individui disponevamo di informazioni dettagliate riguardanti la composizione del microbioma e il consumo di caffè.

Abbiamo riscontrato che il batterio è onnipresente in tutti gli individui di questa coorte, compresi quelli che non bevono caffè. Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che le specie microbiche intestinali vengono trasmesse e acquisite da chi condivide i nostri stessi ambienti (come familiari, conviventi e persino amici, come hanno dimostrato altri studi, alcuni dei quali condotti dallo stesso team, ndr). Nonostante ciò, abbiamo osservato un’enorme differenza tra chi consuma il caffè e chi no”.

La quantità di Lawsonibacter asaccharolyticus contenuta nel microbioma intestinale dei bevitori di caffè è tra le 4,5 e le 8 volte maggiore rispetto a quella presente nei non bevitori, con una relazione direttamente proporzionale tra la quantità di caffè abitualmente consumata e l’abbondanza del batterio. Per verificare ulteriormente i risultati, i ricercatori hanno coltivato il batterio in vitro. “Abbiamo osservato che l’aggiunta di caffè ai piatti di coltura stimola la crescita del Lawsonibacter asaccharolyticus, che sembra quindi nutrirsi di questo alimento”, spiega Manghi.

“Dopodiché abbiamo condotto un’indagine epidemiologica più allargata su un ulteriore set di dati raccolti precedentemente da diverse migliaia di individui provenienti da 25 paesi in tutto il mondo”, prosegue il ricercatore. “Per ognuno di questi individui erano disponibili informazioni relative ai microbi intestinali e al paese di provenienza, ma non al consumo di caffè individuale. Abbiamo quindi incrociato questi dati con quelli contenuti nei database pubblici e internazionali circa il consumo pro capite di caffè e i suoi tassi di importazione nei diversi paesi in questione.

Abbiamo notato che l’abbondanza media di Lawsonibacter asaccharolyticus tende ad essere correlata significativamente con le quantità medie di caffè consumate nei paesi di provenienza degli individui di questa seconda coorte”.

Gli autori hanno constatato che nei paesi in cui si beve più caffè – che in Europa sono il Lussemburgo, la Danimarca e la Svezia – la presenza media del Lawsonibacter asaccharolyticus tra i membri della popolazione è più alta; viceversa, nei paesi in cui il caffè è meno consumato – come Cina, Argentina e India – il batterio sembra quasi assente. Manghi e coautori hanno scoperto inoltre che il microrganismo è più diffuso nelle popolazioni urbanizzate occidentali rispetto a quelle rurali o non occidentali, dove il consumo di caffè è meno diffuso.

“In nessuna delle due coorti abbiamo invece riscontrato differenze significative tra gli individui sani e quelli affetti da qualche patologia”, continua Manghi. “In altre parole, abbiamo osservato l’associazione tra il consumo di caffè e la presenza del Lawsonibacter asaccharolyticus in tutti gli individui, a prescindere dall’eventuale presenza di malattia”.

Non è chiaro, quindi, se l’abbondanza di questo microrganismo nell’intestino abbia qualche impatto sulle condizioni di salute anche perché, come spiega Manghi, “il Lawsonibacter asaccharolyticus è stato scoperto e classificato solo nel 2018. Si tratta di un batterio che ha palesemente un ruolo molto ben definito nella nostra fisiologia, perché è legato a una bevanda diffusa in tutto il mondo. Tuttavia, i nostri risultati non confermano né escludono la possibilità che il Lawsonibacter asaccharolyticus sia il responsabile dell’effetto benefico del caffè. Lo studio, d’altronde, non era progettato per testare questa ipotesi”.

Questa, comunque, è una delle direzioni in cui si svilupperà in futuro la ricerca di Manghi e coautori.  “Il nostro obiettivo è quello di ottenere e analizzare diversi ceppi di questo batterio ancora poco conosciuto per studiarne l’attività biologica e cercare di comprendere i suoi possibili effetti sulla salute, soprattutto quelli legati al caffè”. Il team prevede inoltre di estendere la ricerca ad altri alimenti per esplorare ulteriormente le complesse relazioni tra microbioma e dieta. Come si diceva, comprendere queste dinamiche potrebbe consentire, un giorno, di progettare diete personalizzate che riducano il rischio di sviluppare determinati problemi di salute. Si tratta però di un obiettivo particolarmente ambizioso; bisogna continuare ad approfondire i meccanismi – ancora in parte sconosciuti – attraverso i quali il microbioma influisce sul nostro benessere.

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012