Studiare musica può favorire un maggiore sviluppo delle facoltà cognitive dell’essere umano? Questa domanda è al centro di varie ricerche, che non sono giunte a conclusioni univoche, alimentando un dibattito – ancora oggi molto vivo – tra chi pensa che la musica possa effettivamente influire su alcune capacità umane, e chi, invece, ritiene che non sia così.
Queste discussioni sono dovute al carattere equivoco e contraddittorio delle ricerche in questo ambito, a causa di difficoltà pratiche nella raccolta dei dati.
Abbiamo affrontato l’argomento con Massimo Grassi, professore di psicologia della musica all’università di Padova, che ci ha illustrato i principali ostacoli che impediscono a questi studi di cogliere con esaustività ogni aspetto della questione. “Sono diversi anni – afferma il docente – che si sta cercando di capire se fare pratica musicale possa avere benefici sulla cognizione, la memoria o le abilità linguistiche. Infatti, è molto diffusa l’idea che allenando l’intelligenza musicale si possano trarre benefici che si ripercuotono anche su altre facoltà umane, come il linguaggio”.
Grassi spiega che, nel tempo, gli articoli sul tema sono stati numerosissimi, con diverse caratteristiche ed una variegata natura: “Principalmente, gli studi sull’argomento sono di due classi distinte. La prima, investiga le differenze tra musicisti e non: si prendono in considerazione alcune persone con un allenamento musicale ben definito, per valutare il livello delle loro prestazioni cognitive rispetto a chi non ha mai studiato musica. Obiettivo di queste ricerche, è comprendere se i musicisti presentino livelli di intelligenza più alti rispetto ai non musicisti”.
L’aspetto positivo di questi studi è che permettono di valutare gli effetti di un training musicale a lungo termine e di misurare i progressi che lo stesso training può determinare sulle capacità cognitive; il versante negativo, invece, è che si tratta di studi correlazionali, in cui, cioè, si mettono in relazione due o più variabili, ma non è detto che questo rapporto sia di tipo causale. Per esempio, se le prestazioni cognitive di memoria di un musicista fossero effettivamente migliori, non potremmo avere la certezza che ciò dipenda dall’allenamento musicale, o da una buona memoria che la persona già possedeva prima di cominciare a suonare. “C’è poi -continua Grassi – Un altro gruppo di studi, di tipo sperimentale. In questo caso, si prendono in considerazione persone che non hanno mai studiato musica per esaminare se, attraverso un training musicale controllato, possano migliorare in specifiche abilità cognitive”.
Queste ricerche permettono di individuare relazioni di tipo “causa effetto”; tuttavia, è molto difficile coinvolgere un elevato numero di persone per un tempo lungo e, per di più, richiedere un impegno tanto gravoso come lo studio della musica. Perciò, i campioni di persone che questi studi coinvolgono sono spesso esigui e i training musicali offerti molto limitati nel tempo.
Non vi sono, dunque, evidenze univoche e sufficienti a confermare che lo studio della musica possa avere benefici anche su altre facoltà cognitive, poiché i risultati a cui questi studi sono giunti sono diversi e spesso in contrasto tra loro. Tuttavia, in un recente articolo scientifico, pubblicato su Plos Biology, alcuni studiosi hanno cercato di assumere una posizione conciliante in merito alla questione: in particolare, hanno suggerito che chi pratica la musica deve affinare due dimensioni fondamentali che caratterizzano questa disciplina: il tono – ovvero la capacità di individuare e intonare le note - e il ritmo – che è l’abilità di tenere il tempo. Secondo gli studiosi, sarebbe il ritmo, e non il tono, a influire su alcune facoltà cognitive, come la lettura o le capacità esecutive. In base a questa ipotesi, ci sarebbero due gruppi di persone: alcuni che hanno, di natura, una buona capacità ritmica, ed altri che, invece, hanno bisogno di un allenamento per acquisirla. I primi non riscontrerebbero alcun miglioramento con l’allenamento musicale, poiché possiedono già sufficienti capacità ritmiche; gli altri, invece, avrebbero bisogno di allenarsi e, con lo studio, anche alcune delle loro facoltà cognitive migliorerebbero leggermente.
“Il problema di questa ipotesi – afferma Grassi – è che, per fornire una risposta scientifica forte dovrà reclutare per la ricerca un grande numero di persone. Più una ricerca è ampia in termini di numero di partecipanti, più è rappresentativa della popolazione di riferimento. Ciò diventa ancora più importante per studi di questo tipo, che riguardano fenomeni sottili: infatti, se suonare uno strumento ci rendesse molto più intelligenti, lo noteremmo ad occhio e in modo più immediato”.
Invece, i miglioramenti nel livello di intelligenza, di memoria e del linguaggio che la musica può apportare non sono così evidenti; ovviamente, per intercettare un fenomeno sottile servono grandi numeri e grandi quantità di dati, che questo articolo non prende in considerazione. Ma quali facoltà umane l’allenamento musicale potrebbe effettivamente migliorare? Grassi spiega come poter valutare se ci sia una relazione tra la capacità musicale e la facoltà di nostro interesse: lo si può fare, dichiara, esaminando le somiglianze e le differenze tra i due aspetti del presunto rapporto. Per esempio, i musicisti sono molto avvezzi a cogliere la melodia di una musica, così come l’intonazione fine delle note. Per questo motivo, la loro capacità di rilevare la prosodia del parlato potrebbe essere più elevata, proprio in virtù di una certa somiglianza tra le due sfere e si potrebbe presumere un’associazione tra lo studio della musica e la facoltà linguistica. Se, invece, speriamo di riscontrare un incremento delle abilità sociali in chi suona il pianoforte, stiamo mettendo in rapporto due aspetti molto diversi, più difficili da associare.
“La musica – afferma Grassi – è considerata un’attività pregiata, ed è socialmente molto apprezzata. Ovviamente, ha tante caratteristiche che la rendono tale: è complessa ma la si può affrontare anche in modo semplice, la si può coltivare da soli o con altri, ha una lunga e interessante storia. Tuttavia, non dobbiamo considerarla un farmaco per tutte le stagioni”. Infatti, può sicuramente aiutare lo sviluppo di alcune facoltà umane, ma, al di là di modi di dire e luoghi comuni, queste relazioni vanno sperimentate e studiate a fondo, prima di poterle definire scientificamente certe.