CULTURA

Il secolo di Topolino. Gli Usa in Europa

“Per oltre un secolo l’America ha rappresentato un potente generatore di pressioni per il cambiamento e l’innovazione in Europa. Vissuta come sfida, ispirazione, provocazione o minaccia, questa era un’America che non poteva essere ignorata e che spesso chiedeva a voce alta risposte alle sue sollecitazioni. Tra la pluralità di significati differenti che ha assunto la società degli Stati Uniti nell’ultimo secolo, non è mai mancato quello d’immagine del futuro.” Una sfida per la modernità – Europa e America nel lungo Novecento. Si intitola così l’ultimo libro di David W. Ellwood, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università di Bologna, edito da Carocci; un lungo saggio che analizza i momenti salienti del rapporto fra Europa e Stati uniti e può essere considerato la summa delle sue ricerche sulla politica estera americana e più in generale sul “secolo americano” visto dal lato delle relazioni e dell’influenza economica e culturale fra “vecchio” e “nuovo” mondo. Un lavoro nel quale piano economico e piano culturale, cambiamento degli equilibri fra le principali nazioni industrializzate e costruzione di immaginario collettivo, miti e prodotto interno lordo, politica estera ed egemonia in senso ampio si intrecciano e retroagiscono fra loro. Come Ellwood evidenzia, fin dagli albori del secolo scorso la classe dirigente americana ha intrapreso un processo di esportazione dei propri valori fondativi verso i paesi situati oltre Atlantico spinta dalla convinzione di avere un destino manifesto: quello di convertire il resto del mondo alla democrazia e mostrarsi grazie ai propri successi come nazione eletta, in grado di diventare il modello economico e culturale di riferimento. Un’aspirazione alla quale la spettacolare crescita economica e la spinta dell’innovazione resa necessaria dalla relativa scarsità di manodopera e dalla mobilità sociale hanno dato basi più che solide. 

In un lungo saggio che prende il via dal 1898, anno della vittoria americana sull’impero spagnolo, e termina nel 2008 con l’insediamento alla Casa Bianca di Barack Obama, lo studioso d’origine inglese ripercorre le tappe principali che hanno portato l’America a raggiungere la posizione egemone che ancora oggi detiene nei confronti dell’Europa: un’ambizione evidente già agli inizi del ‘900 con i “Quattordici Punti” di Woodrow Wilson esposti durante una sessione comune del Congresso degli Stati Uniti nel gennaio 1918, dopo il suicidio delle potenze europee nella I guerra mondiale e l’intervento Usa a fianco dell’Intesa, e poi con lo sviluppo del fordismo, il sistema di organizzazione industriale che rivoluzionò l’economia attraverso la catena di montaggio dando agli Usa un vantaggio sostanziale. Un percorso che vede egemonia politica ed economica crescere di pari passo e prosegue con il New Deal, il piano di risanamento economico e sociale lanciato dal presidente Roosevelt per uscire della grande crisi scoppiata nel 1929, per trovare la propria sanzione definitiva nel Piano Marshall, l’ambizioso tentativo di ricostruire l’Europa dopo la II Guerra mondiale proponendosi come guida. Se è vero che politicamente venivano visti con diffidenza, la forza travolgente degli Usa si è rivelata quella della loro cultura di massa, dei loro miti, fino all’invenzione della società dei consumi. Dalla musica al cinema, dalla moda al mondo dei media per approdare ai più recenti social network, l’America ha saputo diventare la patria del progresso e della libertà individuale, dell’abbondanza e di stili di vita nuovi ed attrattivi. Un passaggio tutt’altro che indolore, e vissuto con significative differenze all’interno dei diversi strati sociali. “Le masse e gli imprenditori accolsero i film, la musica e i balli che giungevano dagli Stati Uniti con la stessa intensità con cui gli “intellettuali” li denunciavano.” L’Occidente si è “americanizzato” grazie alle innovazioni apportate con il legame sempre più stretto fra produzione, innovazione e consumo, la wheel of retailing, che hanno mutato profondamente la vita quotidiana, e con l’introduzione di supermercati e centri commerciali. Grazie alle grandi campagne pubblicitarie e dall’immaginario veicolato da cinema e televisione, le imprese Usa hanno imposto a livello globale i prodotti più vari, dalle bevande alle sigarette, dalle automobili ai fast food. Le classi dirigenti europee, sottovalutando l’ascendente che le espressioni della cultura popolare americana avevano sulla popolazione, non sono state all’altezza di creare tempestivamente una propria alternativa, che non desse l’idea d’essere un’importazione o un banale tentativo di emulazione, e hanno scontato pesantemente rivalità e divisioni per ambiti nazionali ormai troppo ristretti. La sfida per la modernità si è dunque giocata sull’immaginario collettivo, che ha sempre visto primeggiare l’America per l’originalità e l’efficacia delle sue proposte; l’Europa, meno avvezza al progresso e al cambiamento e meno capace di unirsi, se non a prezzo di due guerre che l’hanno devastata, nel corso del ‘900 è sempre stata relegata a una condizione d’inseguimento, quindi d’inferiorità. Ciò che resta da vedere, e che secondo Ellwood potrebbe diventare l’opportunità che l’Europa dovrebbe sfruttare, è come evolverà la situazione nei prossimi anni; l’America, dopo l’attentato dell’11 settembre  2001 e i problemi derivati da una politica estera meno in grado di attrarre con la propria egemonia e più relegata alla sola forza militare, sarà in grado di rilanciare il suo ruolo di superpotenza oltre le conseguenze della recessione globale e raccogliere la sfida sempre più accesa con la Cina, sua grande antagonista? Scriveva Friedman pochi anni fa: “Noi americani siamo gli apostoli del Mondo Veloce, i profeti del libero mercato e i sommi sacerdoti dell’high tech. Vogliamo l’'ampliamento’ sia dei nostri valori sia dei nostri Pizza Hut. Vogliamo che il mondo ci segua e diventi democratico e capitalista, con un sito internet per ogni famiglia, una Pepsi per ogni bocca, Microsoft Windows in ogni computer e con ognuno, ovunque, che si serve da solo.” (Thomas L. Friedman, A Manifesto for the Fast World, in “The New York Times Magazine”, Section 6, 28 March 1999) Prima e più che le vittorie contro i principali avversari, sono queste le ragioni che hanno fatto del “lungo XX secolo” il secolo americano. Lo sono ancora, in un mondo che le ha assorbite e rielaborate, e che sta lentamente ritrovando la sua multipolarità? Forse si riapre qui lo spazio per una proposta europea che parli la lingua faticosamente conquistata della collaborazione, dei diritti, della soluzione pacifica dei conflitti, come ipotizzava Rifkin qualche tempo fa.

Gioia Baggio

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