SCIENZA E RICERCA

Senti chi parla. L'apprendimento vocale negli animali

Che i pappagalli siano in grado di imitare il linguaggio umano è cosa risaputa. Ma se c’è un animale che più di tutti ha sorpreso per le sue incredibili capacità è il pappagallo cenerino Alex. Sotto la guida di Irene Pepperberg, docente di etologia alla Harvard University, in trent’anni di esperimenti instancabili sulle sue capacità cognitive, Alex ha imparato un vocabolario di oltre 100 parole, ha dato prova di comprenderne il significato, ha imparato a contare ed è riuscito a intuire il concetto di “zero”, di “uguale” e “diverso”. Non riuscì mai a pronunciare la parola apple, per via di quelle labiali così difficili da riprodurre quando invece delle labbra si ha un becco. Ma, per rimediare, aveva coniato una nuova parola: banerry, una crasi tra cherry e banana, per quella mela rossa che sembrava una grossa ciliegia dal sapore bananoso.

La capacità di apprendimento vocale – di riuscire cioè a imparare, memorizzare e riprodurre dei suoni utilizzandoli nei contesti appropriati – solletica l’interesse degli scienziati da secoli. Pochissimi animali hanno questa abilità: la maggior parte di loro si esprime con un linguaggio innato o istintivo, non ha bisogno di imparare “a parlare”. Eppure l’apprendimento vocale è così affascinante proprio perché rende gli (altri) animali che ne sono capaci, più simili a noi.

Già nel 1773 Daines Barrington, all’epoca vicepresidente della Royal Society, proponeva un paragone tra il linguaggio umano e il canto degli uccelli sulle pagine delle Philosophical Transactions of the Royal Society of London. Oggi, a quasi 250 anni di distanza, un numero speciale della rivista fa il punto su quanto siamo riusciti a capire sull’apprendimento vocale negli altri animali. E come quello che abbiamo scoperto può aiutarci a comprendere la natura del nostro linguaggio.

Noi esseri umani, per esempio, impariamo a parlare da piccoli, per ascolto e imitazione dei nostri genitori. Per prove ed errori, attraverso un processo di auto-ascolto e auto-correzione, arriviamo a perfezionare le prime sillabe, ad articolarle in parole e poi in frasi. In sostanza impariamo e ci auto-correggiamo sulla base di un modello da copiare: la voce dei nostri genitori e degli adulti che ci circondano. E la lingua che impariamo – salvo incidenti di percorso o casi particolari – la ricordiamo per tutta la vita. Questa regola generale è valida anche per tutti gli altri “apprendisti vocali”.

Oltre che nei primati, infatti, oggi sappiamo che l’apprendimento vocale esiste in soli altri sei gruppi animali: uccelli canori, psittaciformi (pappagalli), colibrì, cetacei, pinnipedi e chirotteri. E non tutti hanno le stesse abilità: c’è chi riesce a imparare dei suoni solo in un limitatissimo lasso di tempo della sua vita – detto periodo sensibile – come la stragrande maggioranza degli uccelli canori, per esempio. Altri che invece mantengono questa capacità in tutto l’arco della loro vita, come i pappagalli o le megattere, e ovviamente noi umani (con più difficoltà, man mano che passano gli anni). Tutti apprendono per ascolto e imitazione degli adulti della propria specie, per prove, tentativi ed errori. E in questo processo il balbettare è cosa normale: la lallazione fa parte del processo di apprendimento vocale nell’essere umano e si riscontra anche nella maggior parte delle altre specie di “apprendisti canori”. Tra questi, alcuni riescono persino a imparare e utilizzare suoni che non fanno parte del repertorio della propria specie: pensiamo ai pappagalli capaci di imitare il linguaggio umano, o ad alcuni uccelli che imparano canti, strofe e segnali vari di altri “vicini di casa”. Qualcuno poi ha abilità creative: riesce a produrre dei mashup originali, oppure utilizza in nuovi contesti i suoni appresi. E in molti apprendisti vocali abbiamo persino scoperto dei dialetti, cioè delle inflessioni ‘linguistiche’ regionali del tutto simili ai dialetti umani.

Proprio per questa incredibile varietà di casi, nel primo dei 21 articoli contenuti nel numero speciale, Sonja Vernes e Vincent Janik dell’Università di St. Andrews propongono un nuovo sistema per classificare gli apprendisti vocali, che tiene conto: della fedeltà con cui un canto o un suono viene ripetuto e imparato; della gamma di suoni e canti che possono essere appresi e imitati; del tempo necessario per imparare i nuovi suoni e per quanto tempo questi vengono ricordati.

In ogni caso, che si parli di mammiferi o di uccelli, nel processo di apprendimento e di sviluppo di un linguaggio vocale ci sono tre elementi chiave imprescindibili.

Il primo è il tempo: al di fuori del cosiddetto periodo sensibile non si memorizza e non si impara né il proprio linguaggio, né quello altrui. Sono fortunate, dunque, le specie che hanno più periodi sensibili nell’arco della loro vita, come gli usignoli, o che hanno un periodo sensibile incredibilmente esteso, come noi esseri umani e i pappagalli. Abbiamo capito dunque che questo periodo sensibile ha una fine. Ma quando comincia? A volte (per quanto ne sappiamo finora) ben prima della nascita. È il caso di molti uccelli in cui i piccoli imparano a riconoscere il canto dei genitori quando sono ancora nelle uova, come avviene per lo scricciolo fatato superbo (Malurus cyaneus): un piccolo e coloratissimo uccello piuttosto comune nei boschi del sud-est dell’Australia. A dirla tutta, i piccoli nelle uova non solo imparano a riconoscere il canto dei genitori, ma imparano anche una sorta di “password vocale” cantata dalla madre in cova sul nido, che verrà utilizzata poi dai genitori per capire se la propria covata è stata parassitata da un cuculo.

Un inizio così precoce, però, sembra essere molto più diffuso di quanto pensato finora, come spiega un team internazionale del BirdLab della Flinders University in questo numero speciale. Il gruppo ha preso in considerazione tre specie di vocal learners – lo scricciolo fatato superbo, lo scricciolo fatato alirosse (Malurus elegans) e fringuello terragnolo minore (Geospiza fuliginosa) – e due specie di uccelli vocal non-learners: la quaglia del Giappone (Coturnix japonica domestica) e il pinguino minore (Eudyptula minor). E ha sottoposto le uova all’ascolto di canti e richiami di individui della stessa specie o di altre specie, monitorando contemporaneamente la frequenza dei battiti cardiaci degli embrioni in ovo prima, durante e dopo l’esposizione ai canti registrati. E anche se nelle tre specie di vocal learners la risposta è stata più forte e marcata, in realtà tutti gli embrioni di tutte le specie prese in considerazione hanno risposto all’ascolto dei canti di conspecifici. Questo vuol dire che tutte le specie considerate imparano a percepire e riconoscere il canto e i richiami dei conspecifici prima della schiusa. Anche l’esperienza uditiva prenatale può quindi avere un ruolo fondamentale nell’apprendimento vocale e in generale nella comunicazione animale.

Oltre al tempo, il secondo elemento indispensabile è la presenza di un tutor, cioè di un esempio – anche solo sonoro, come un banale canto registrato o una lingua umana registrata – da ascoltare e memorizzare, su cui costruire un “modello”, appunto, di linguaggio da imitare.

E il terzo elemento fondamentale è la pratica, che significa avere la possibilità di auto-ascoltarsi e auto-correggersi: una volta memorizzato il suono da riprodurre, occorre produrlo appunto. E questo è un processo tutt’altro che banale. L’apprendimento di un linguaggio vocale ha bisogno infatti di un costante feedback acustico: l’ascolto di quello che viene pronunciato e il confronto con il “modello” memorizzato è fondamentale per correggere gli errori iniziali e migliorare. Anche negli esseri umani: i bambini spesso storpiano delle parole con lettere o sillabe che possono risultare difficili da pronunciare, ma con l’esercizio ogni difetto di pronuncia viene superato. Lo stesso facciamo da adulti quando impariamo una nuova lingua. Ma gli esseri umani che nascono sordi, per esempio, anche se l’apparato fonatorio funziona perfettamente non acquisiscono una normale capacità di linguaggio parlato proprio perché per loro è impossibile auto-ascoltarsi e auto-correggersi. Lo stesso vale per gli uccelli canori. I pulli che nascono sordi non saranno mai capaci di cantare come gli adulti della loro specie: il canto di fatto non si svilupperà mai, resterà anomalo, fatto di poche note distorte e suoni sgraziati senza ritmo né armonia. Di sole sillabe non organizzate in frasi e strofe.

L’ultimo arrivato nella lista degli animali in cui il ruolo dell’ascolto e dell’autocorrezione per sviluppare correttamente il linguaggio vocale specie-specifico è fondamentale, è il pipistrello pallido dal naso a foglia (Phyllostomus discolor). Un team di chirotterologi tedeschi ha infatti appena dimostrato sulle pagine del numero speciale delle Philosophical Transactions of the Royal Society of London che anche questa specie di chirottero diffusa nell’America centrale e meridionale non può fare a meno dell’udito nel processo di apprendimento. I giovani pipistrelli resi sordi, infatti, emettono molte più vocalizzazioni rispetto alla media. Ma i loro versi risultano alterati rispetto a quelli emessi dai loro coetanei udenti: sono più brevi, più alti di tono e striduli, sono aperiodici. Insomma non hanno nessuna delle caratteristiche che dovrebbero avere.

In 250 anni siamo riusciti a scoprire tantissimo sul meccanismo di apprendimento vocale negli animali, sulle tempistiche, le modalità e i fattori chiave con cui si sviluppa un linguaggio basato sul suono. Ma, come sottolineato nell’articolo di Vernes e Janik, abbiamo compreso la neurobiologia che c’è dietro l’apprendimento e la produzione vocale solo per pochissime specie. E sarà proprio questa la nuova sfida scientifica: una sfida che scioglierà dei dubbi, consentirà di definire meglio alcune “zone grigie” dell’apprendimento vocale, e svelerà di sicuro nuovi percorsi dell’evoluzione del linguaggio.

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