Un momento della plenaria del 1 novembre 2024 alla COP16. Foto: UN Biodiversity/Flickr
La COP16, conclusasi il 2 novembre 2024 a Cali, in Colombia, è stata descritta da alcuni come un negoziato dai risultati rivoluzionari, da altri come un fallimento.
In effetti, la presidenza colombiana dell’ultima COP sulla biodiversità ha raggiunto – come ha raccontato su Il Bo Live Marco Boscolo – risultati importanti su almeno due temi: la rappresentanza delle popolazioni indigene e delle comunità locali da un lato, e un meccanismo per l’equa condivisione dei profitti derivanti dalle risorse genetiche della natura dall’altro.
D’altra parte, tuttavia, la COP16 si è conclusa senza un accordo su un tema centrale per l’attuazione del Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework (KM-GBF), esito della storica COP15 del 2022: la questione della “mobilitazione delle risorse,” su cui non si è trovato un accordo neanche nell’ultima, lunghissima riunione plenaria, che ha superato di diverse ore il limite stabilito per la fine della COP16.
In breve, il tema intorno a cui il tavolo dei negoziati è saltato riguarda l’organizzazione del fondo che dovrà gestire le risorse destinate alla tutela della biodiversità, le quali dovrebbero essere mobilizzate, appunto, seguendo un flusso che andrà prevalentemente dai paesi più ricchi a quelli in via di sviluppo.
Nel corso dei negoziati si è delineata una contrapposizione netta tra questi due blocchi geopolitici: da una parte i Paesi industrializzati, che supportano l’attuale configurazione del Global Biodiversity Framework Fund (GBFF), istituito poco dopo la COP15 e gestito dal Global Environment Facility (GEF), un istituto della Banca Mondiale. Dall’altra parte, invece, i Paesi in via di sviluppo, che criticano duramente la decisione di appaltare il fondo alla Banca Mondiale e chiedono maggiore trasparenza nella gestione dei fondi – attraverso l’istituzione di un organismo autonomo, con meno vincoli e maggiore facilità di accesso – e maggiore autonomia nella gestione dei finanziamenti ricevuti.
Lorenzo Ciccarese, responsabile dell'area Conservazione di specie e habitat terrestri e sistemi agro-forestali dell'ISPRA e National Focal Point dell’IPBES per l’Italia, ha partecipato ai negoziati di Cali insieme alla delegazione dell’Unione Europea, e spiega che questo disaccordo nasce da esigenze e possibilità diverse tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo: “Per alcuni paesi, quel che conta è ricevere fondi. Teoricamente questi fondi dovrebbero essere spesi in interventi di protezione e ripristino, ma ciò non sempre accade. Ecco perché, durante i negoziati, l’UE ha contribuito a bloccare l’accordo sottolineando la necessità di trasparenza nella trasmissione di questi fondi e nel loro utilizzo, mentre invece molti Paesi in via di sviluppo chiedono maggiore autonomia”.
“Alla fine del negoziato – prosegue il ricercatore – non è stato raggiunto un accordo sulla questione della resources mobilization. I Paesi in via di sviluppo volevano affrontare il tema, mentre i Paesi ricchi non hanno voluto, pretendendo che si raggiungesse una decisione unanime non solo sulla questione specifica, ma su un intero pacchetto di misure”.
Tra queste, c’era anche il documento sui meccanismi di “Planning, Monitoring, Reporting, and Review”, fondamentale per rendere efficace l’allocazione dei fondi. “I fondi sono inutili – commenta infatti Ciccarese – se non sono assegnati in base a un’attenta pianificazione delle attività necessarie, se non si completano inventariazione e monitoraggio, e se questi passaggi non sono seguiti da un reporting trasparente e, infine, da una attenta correzione della pianificazione”.
“Come si può pensare di utilizzare in maniera corretta ed efficace i fondi che arrivano senza un piano di questo genere?”, chiede Ciccarese. “Questo vale anche per i paesi sviluppati: prima di sviluppare una strategia per la biodiversità tutti questi strumenti devono già essere in campo. Invece, il Planning, Monitoring, Reporting, and Review Mechanism non è ancora stato approvato – e durante i negoziati è stato quasi trascurato”.
Risultati raggiunti, ma da mettere in atto
Anche per volontà politica della presidenza colombiana, afferma il ricercatore ISPRA, i negoziati sono stati dominati in modo quasi esclusivo da due questioni, su cui la presidenza era abbastanza sicura di poter raggiungere buoni risultati: “Si è discusso soprattutto dell’articolo 8j della CBD, sulla rappresentanza dei popoli indigeni e delle comunità locali, e dell’equa condivisione dei benefici derivanti dallo sfruttamento delle informazioni sulle sequenze digitali delle risorse genetiche (Digital Sequence Information, o DSI)”. Riguardo quest’ultimo tema – che, come ricorda Ciccarese, è uno degli obiettivi principali del KMGBF (equa condivisione dei benefici provenienti dalla biodiversità) – è degno di nota che sia stato istituito un fondo finanziario globale (il Cali Fund) nel quale, idealmente, dovranno essere convogliati i finanziamenti derivanti dalla condivisione dei proventi dello sfruttamento delle risorse genetiche: teoricamente, le imprese dovranno versare lo 0,1% del fatturato oppure 1% dei profitti.
Anche su questi due risultati – senz’altro storici, chiosa l’esperto – vi sono però dei caveat, che riguardano il tema della rilevanza pratica e dell’implementazione di queste decisioni. La rappresentanza di popoli indigeni e comunità locali – in attuazione dell’articolo 8j della CBD – è stata garantita attraverso l’istituzione di un organo separato (un Subsidiary body) le cui modalità d’azione devono ancora essere definite nel dettaglio ma che avrà il compito di affrontare le questioni legate all’attuazione dell’articolo 8j e di aumentare la partecipazione delle popolazioni indigene e delle comunità locali in tutti i processi decisionali della Convenzione. La costituzione di questo organo, che ha solo una funzione consultiva e non dà un vero e proprio potere decisionale, è stata criticata da alcuni come specifica Ciccarese: “Si teme che la presenza di questo organo possa essere sfruttata da alcuni governi per silenziare la voce di popoli indigeni e comunità locali: questi, infatti, finora erano – seppur raramente – al seguito dei rispettivi governi nazionali, mentre ora sono stati quasi relegati a questa realtà laterale, senza potere di veto in assemblea”.
“Certo – continua il ricercatore dell’ISPRA – il fatto che il Subsidiary body abbia almeno un valore consultivo, e quindi debba comunque essere consultato sulle decisioni da prendere, è già una rivoluzione”.
Considerazioni simili valgono anche per il Cali Fund: contribuire a questo fondo devolvendo una parte – per quanto minima – dei propri proventi non è obbligatorio, ma è lasciato alla volontà delle imprese e degli Stati, i quali sull’operato delle proprie imprese dovrebbero vigilare: questo solleva dubbi sull’impatto effettivo di questa decisione. “I prossimi passi sono la definizione di quali tipologie di impresa devono contribuire (sicuramente quella farmaceutica, cosmetica e agroalimentare, e poi quelle che in futuro si svilupperanno grazie alle nuove tecnologie per lo sfruttamento delle risorse genetiche) e in che modo i singoli Stati interverranno. Proprio agli Stati, infatti, è demandato – nel target 15 del GBF – il compito di “prendere provvedimenti legali, amministrativi o politici per incoraggiare e rendere possibile alle imprese, in particolare alle grandi multinazionali e alle istituzioni finanziarie” di aumentare la propria consapevolezza circa il proprio impatto sulla natura e la propria dipendenza da essa, e a vigilare che mettano in atto misure per ridurre gli impatti sulla biodiversità e contribuire a un’equa e giusta condivisione dei benefici”.
L’eterna questione dei finanziamenti
Proprio come sta accadendo in questi giorni alla COP29 sul clima, alla COP16 sulla biodiversità il nodo della raccolta dei fondi per la protezione e il ripristino della natura – la cifra necessaria era stata calcolata nel 2022 e ammontava a circa 600-800 miliardi di dollari l’anno – è rimasto irrisolto. Il GBF ha fissato degli obiettivi precisi: secondo il target 19, attraverso il GBFF i paesi in via di sviluppo devono ricevere, tra il 2023 e il 2025, 20 miliardi di dollari l'anno; dopodiché questa cifra deve aumentare a 30 miliardi di dollari l’anno fino al 2030 attraverso la finanza, e arrivare alla cifra totale di 200 miliardi di dollari l’anno attraverso diverse fonti. Siamo ancora ben lontani dal raggiungere questi numeri: per via di diverse questioni tecniche – come, ad esempio, la mancata approvazione dei meccanismi di Planning, Monitoring, Reporting, and Review” – diversi Stati stanno ritardando il loro contributo.
A tal proposito, un altro tema di accesa discussione ha accompagnato la presentazione di uno studio sulla fattibilità e i metodi di realizzazione di un programma globale di “crediti di biodiversità”, meccanismo simile al mercato dei crediti di carbonio. L’International Advisory Panel on Biodiversity Credits (IAPB) ha presentato delle line guida per l’istituzione di questo meccanismo, ma la proposta – già da tempo in discussione – ha sollevato diverse critiche.
I crediti di biodiversità (anche detti biodiversity offsetting) presentano alcuni problemi fondamentali, spiega Ciccarese. Uno riguarda la natura non globale – come le emissioni climalteranti – ma prima di tutto locale della perdita di biodiversità e della degradazione degli ecosistemi. Un danno verificatosi in un luogo non può essere compensato attraverso un intervento di protezione o ripristino realizzato dall’altra parte del mondo; a un danno locale deve corrispondere una soluzione altrettanto locale. “Inoltre – aggiunge l’esperto – vi è la questione della non permanenza di molti interventi nature-based: mentre, quando si evita una certa quantità di emissioni, quel guadagno è per sempre, gli interventi basati sulla biodiversità (ad esempio, un intervento di ripristino di un ecosistema) sono soggetti a danneggiamento, e i benefici accumulati nel corso del tempo possono, purtroppo, essere invertiti in poco tempo, per cause umane o per eventi naturali”.
“Bisogna poi considerare che gli interventi di biodiversity offsetting, se mal programmati, possono risultare addirittura dannosi per la natura. Per tutte queste ragioni, includere i fondi stanziati per iniziative di biodiversity offsetting nel computo della cifra fissata come obiettivo annuale per la tutela della biodiversità è un errore, perché il biodiversity offsetting non può sostituire gli interventi di protezione e ripristino veri e propri”.
“Il Global Biodiversity Framework è un accordo rivoluzionario”, ribadisce Ciccarese. “Per la prima volta, prova a realizzare tutti i tre obiettivi della CBD (la conservazione della diversità biologica, l’uso sostenibile delle sue componenti, e la giusta ed equa condivisione dei benefici derivanti dall’utilizzo delle risorse genetiche)”.
“Altrettanto rivoluzionaria è l’introduzione dei concetti di “whole-of-government” e “whole-of-society”. In base a questi principi, ad esempio, gli Stati non dovrebbero farsi rappresentare soltanto dai propri ministri dell’ambiente, ma anche dai ministri delle finanze, che dovrebbero essere coinvolti nella definizione delle politiche per la realizzazione degli NBSAPs fin dall'inizio. Lo stesso vale per le imprese, che sono un elemento centrale per finanziare gli sforzi internazionali per la tutela della biodiversità”.
“Quella di Cali è stata la prima COP biodiversità a cui hanno partecipato istituzioni bancarie ed imprese. C’erano 23.000 iscritti, c’è stata tantissima partecipazione. Nello spirito del “coinvolgimento della società tutta”, la presidenza colombiana ha avuto la buonissima idea di istituire non solo una Blue Area, destinata ai rappresentanti di governo, dove si sono tenuti i negoziati, ma anche una Green area, dedicata a cittadini, organizzazioni non governative, imprese, agenzie di cooperazione. Sembrava quasi – conclude il ricercatore - che a Cali si tenessero le Olimpiadi, e non un incontro negoziale: la città era in festa, e c’è stata grande partecipazione collettiva”.
La partecipazione di tutti i livelli della società e tutti i livelli di governo è essenziale per estendere la percezione dell'urgenza della crisi della biodiversità e per muovere individui e istituzioni ad agire di conseguenza. Tuttavia, come è emerso con evidenza durante questo negoziato, l'impegno più importante da rispettare è lo stanziamento di una quantità adeguata di fondi per finanziare la tutela della biodiversità e per supportare i Paesi meno abbienti, che spesso sono anche quelli con la maggiore porzione di biodiversità mondiale, in questo sforzo collettivo, che va a beneficio di tutti.
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