Teresa e Lidia Martini
L’8 febbraio 2018, in occasione dell’inaugurazione del 796° anno accademico dell’università di Padova, il presidente della Repubblica ha conferito la medaglia d’oro al merito civile alla memoria di padre Placido Cortese, torturato e ucciso dalle SS tedesche nel 1944 per aver protetto internati, ebrei e prigionieri di guerra.
Le principali collaboratrici della sua opera di carità furono due studentesse universitarie padovane: Teresa Martini (1919-2016), iscritta alla facoltà di chimica, e la sorella Lidia (1921-2011), iscritta a scienze naturali.
Come comprovato da vari documenti del War Office britannico rinvenuti recentemente presso i National Archives di Londra e la National Archives and Record Administration di Washington, esse ebbero, tra il 1943 e il 1945, un ruolo rilevante nel salvataggio di centinaia di ex prigionieri di guerra Alleati fuggiti dai campi di prigionia esistenti in Italia, durante quella che fu probabilmente la più grande evasione di massa della storia.
La loro opera iniziò subito dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e l’immediata durissima occupazione militare tedesca, operata con la collaborazione della neonata Repubblica Sociale, che avevano segnato l’inizio per l’Italia dei 19 mesi più sciagurati della sua storia. L’esercito, privo di ordini, si dissolse miseramente, e circa 700.000 militari italiani furono internati nei lager del Reich a languire e a morire. Centinaia di migliaia di altri militari sbandati e di renitenti alla leva fascista si sparsero per le campagne e le montagne, dove andavano formandosi i primi nuclei della Resistenza armata. In questo scenario circa 50.000 prigionieri di guerra Alleati (degli 80.000 circa presenti in Italia) si dettero alla macchia e, stupiti e commossi, ricevettero insperato aiuto dalla popolazione e dalla Resistenza organizzata.
“ Dopo l'8 settembre circa 50.000 prigionieri di guerra Alleati si dettero alla macchia. Probabilmente la più grande evasione di massa della storia
Così decine di migliaia di giovani provenienti da vari Paesi del Commonwealth britannico furono aiutati a sfuggire all’accanita caccia delle varie milizie fasciste e dei reparti tedeschi: protetti, sfamati, alloggiati in ricoveri sicuri, curati, rivestiti con abiti borghesi, avviati verso le montagne, dove alcuni si unirono ai primi gruppi di partigiani, o accompagnati nei pericolosi viaggi verso la neutrale Svizzera per trovarvi rifugio sicuro, oppure ancora diretti a sud per attraversare il fronte di guerra e ricongiungersi al proprio esercito che risaliva lentamente l’Italia.
Dagli archivi della Allied Screening Commission (A.S.C.) – l’organismo incaricato di indagare intorno alle condizioni dei prigionieri di guerra alleati, e sugli aiuti a loro prestati dalla popolazione italiana – risulta che in Italia centrale e settentrionale furono circa 84.000 (di cui 11.500 nel Triveneto) le famiglie che si dedicarono a quella vasta opera di soccorso, rischiando la vita, poiché le norme penali di guerra decretate il 9 ottobre 1943 dal ministero per l’Interno della Rsi punivano con la morte chiunque prestasse aiuto in qualsiasi modo ai prigionieri di guerra evasi. Spie e delatori si celavano ovunque, allettati dalle ricompense promesse a coloro che avessero facilitato la cattura di un prigioniero.
Nel padovano alla data dell’Armistizio i prigionieri di guerra Alleati, catturati per lo più in Libia, erano 1.150 (di cui 829 sudafricani, 211 inglesi e 110 neozelandesi), distribuiti nei 18 distaccamenti di lavoro agricolo sparsi per la provincia che dipendevano dal campo PG 120 di Padova – Chiesanuova, sito nella Caserma Sud, che nel dopoguerra sarà chiamata “Romagnoli” e infine dismessa nel 2009.
Teresa Martini, poi affiancata dalla sorella Lidia, fu tra le prime ad attivarsi di propria iniziativa nel soccorso ai fuggitivi, che spesso si nascondevano nelle campagne in buche, fossi e fienili, braccati come selvaggina e bisognosi di ogni aiuto.
Presto esse entrarono, con ruoli di primo piano, nella rete clandestina di assistenza ai prigionieri di guerra latitanti che a Padova faceva capo a padre Placido Cortese, frate dell’ordine dei Minori nel convento di Sant’Antonio, e ad Armando Romani, già ufficiale pilota. Questi a loro volta erano in costante collegamento con il Comitato di Liberazione Nazionale di Padova (presieduto Adolfo Zamboni, professore di storia e filosofia al Liceo Ippolito Nievo e dopo la liberazione provveditore agli studi di Padova), del quale sia Teresa che Lidia Martini erano state allieve), con il Cln regionale Veneto (guidato dal prof. Egidio Meneghetti, prorettore dell’Università) e con quello dell’Alta Italia a Milano, con l’organizzazione Fra-Ma (professori Ezio Franceschini e Concetto Marchesi, ex Rettore) e con le autorità Alleate in Svizzera.
Padre Placido Cortese (archivio del Messaggero di Sant’Antonio)
Durante la loro attività le sorelle Martini effettuarono numerosi viaggi clandestini, che nell’inverno 1943-44 guidarono verso la Svizzera oltre 200 ex prigionieri di guerra; in seguito il loro operato fu presi ad esempio dell’attività svolta in Italia a favore dei militari Alleati nel Rapporto finale che il Comitato di Liberazione Nazionale presentò alla A.S.C. le sorelle Martini sono state anche citate nel discorso tenuto a Milano il 25 aprile 2015 dal presidente della Repubblica, che esaltò quella «fraterna collaborazione tra persone di idee politiche diverse.»
Quei lunghi viaggi tra pericoli di ogni genere richiedevano attenta preparazione e particolari accorgimenti per cercare di far passare inosservati quei giovani stranieri, così diversi dagli Italiani per corporatura e lineamenti.
Alla vigilia di ogni viaggio, che era stato accuratamente pianificato e preceduto da una ricognizione dell’intero percorso, gli ex prigionieri venivano accompagnati alla spicciolata in città a casa Martini, che fungeva da centro di raccolta e distribuzione, dove ciascuno era fornito di scarpe, cappotto, cappello, sciarpa, cibo per il viaggio, documenti d’identità e permessi di viaggio falsificati con la collaborazione di funzionari del Comune.
Il viaggio iniziava all’alba dalla stazione centrale di Padova (o, in caso di inagibilità per i bombardamenti, dallo scalo di Campo di Marte), dove gli ex prigionieri, forniti di regolare biglietto, venivano fatti salire su un treno locale gremito di passeggeri. Qui, muniti di giornali nella cui lettura fingevano di immergersi per evitare conversazioni, viaggiavano nella carrozza di centro, mentre due guide si piazzavano nelle carrozze di testa e di coda per avvistare al più presto le pattuglie fasciste, che solitamente iniziavano i controlli dalle estremità del convoglio. I treni “accelerati” fermavano a tutte le stazioni, permettendo così ai fuggiaschi di scendere per eludere i controlli e di risalire subito in un’altra carrozza già controllata, o di attendere un treno successivo.
Una certa protezione durante il rischioso tragitto veniva fornita da un fidato gruppo di ferrovieri organizzati dal prof. Mario Todesco, incaricato di lingua italiana per studenti stranieri all’Università di Padova, che fu trucidato dai fascisti in pieno centro a Padova nella notte tra il 28 e il 29 giugno 1944. La Medaglia d’oro al Merito civile fu conferita nel 2008 alla sua memoria.
Scoprimento della lapide dedicata a Mario Todesco a Padova (2009)
A causa di deviazioni, rallentamenti e soste dovute alle pessime condizioni della linea ferroviaria, ai frequenti bombardamenti e mitragliamenti aerei e ai sabotaggi, il treno arrivava a Milano a tarda sera. Per rispettare il coprifuoco guide e passeggeri trascorrevano la notte negli affollatissimi sotterranei della stazione centrale, dove era più facile sfuggire alle ricerche della polizia, e nel tardo pomeriggio salivano su un treno per Lecco, proseguendo fino a Dervio, sulla sponda orientale del Lago di Como. Dalle tenebre, dopo lo scambio convenuto di segnali luminosi con le pile, appariva una barca che li traghettava sulla sponda opposta del lago, a Cremia, dove erano accolti dalle guide di montagna, che con 8 ore di salita notturna li conducevano a Cavargna, dove sostavano alcune ore al riparo, per poi raggiungere il confine Svizzero con altre quattro ore di marcia nella neve alta.
Quelle lunghe marce in alta montagna, che l’inverno rendeva ancor più difficili e pericolose, erano una dura prova per uomini debilitati fisicamente e psicologicamente da due o più anni di prigionia. Non mancarono tragedie, come quella gravissima che avvenne il 9 novembre 1944 alle Gorges du Malpasset, tra il Passo di Galisia e la Val d’Isère, dove fra tormente e slavine persero la vita una quarantina tra ex prigionieri e partigiani che li accompagnavano verso la Savoia già liberata dagli Alleati.
A qualche gruppo di ex prigionieri venivano aggregati degli ebrei, spesso intere famiglie, come annotato in alcuni P.O.W. Report compilati all’arrivo in Svizzera.
Ai primi di marzo Teresa Martini si recò in Veneto orientale per organizzare la fuga di un centinaio di ex prigionieri latitanti in quell’area.
La sua attività ebbe fine il 14 marzo 1944, quando le SS tedesche la arrestarono insieme alla sorella diciassettenne Carla Liliana (1926-2017). La loro grande casa in via Galileo Galilei a Padova (ora sede del Cuamm - Medici con l'Africa) fu completamente saccheggiata ed esse subirono 5 mesi di cella di isolamento e bastonature nel carcere di Venezia, seguiti da 10 mesi di fame, freddo e pesante lavoro coatto nel KZ Mauthausen e nei suoi sottocampi di Linz e Grein, fino alla liberazione da parte degli Alleati.
Le tre sorelle Martini all’inaugurazione della stele dedicata a Padre Cortese e al suo gruppo nel Giardino dei Giusti a Padova (2008)
Lidia Martini sfuggì alla cattura e continuò ad assistere i prigionieri insieme ad Armando Romani, svolgendo anche una preziosa attività di raccolta di informazioni militari. Fu arrestata il 17 gennaio 1945 e imprigionata a Venezia e poi a Verona, infine rinchiusa nel durissimo campo di concentramento di Bolzano, base di partenza per i lager. Qui ritrovò il prof. Meneghetti, col quale fece ritorno a Padova alla fine della guerra. Anche Romani fu arrestato, ma riuscì a fuggire rocambolescamente dal campo di concentramento di Fossoli prima di essere trasferito in lager.
Padre Cortese, che dopo aver protetto gli internati jugoslavi e i prigionieri di guerra Alleati, dall’estate del 1944 si era prodigato anche nel dare rifugio ai militari cecoslovacchi che disertavano dall’esercito tedesco in cui erano stati arruolati con la forza, venne prelevato con l’inganno all’esterno della basilica di Sant’Antonio l’8 ottobre 1944 e condotto nella sede delle SS a Trieste, dove subì orribili torture e fu ucciso circa un mese dopo. Una stele, inaugurata nel 2008, ricorda Padre Cortese e il suo gruppo nel Giardino dei Giusti a Padova. La causa di beatificazione del martire della carità è in corso.
L’alta onorificenza di Member of the Order of the British Empire (Mbe), Civil fu proposta per Teresa Martini per i servizi resi alla causa Alleata, mentre per Lidia Martini fu proposta la King’s Medal for Courage in the Cause of Freedom, ma entrambe le onorificenze furono poste in “cold storage”, e per ragioni di opportunità politica e non vennero mai conferite. La stessa deludente fine fecero tutte le onorificenze proposte per alcune centinaia dei più meritevoli “helpers in Italy”.
“ Le sorelle Martini non ricevettero mai alcun riconoscimento dal Regno Unito e dal Commonwealth. La stessa deludente fine fecero tutte le onorificenze proposte per alcune centinaia dei più meritevoli “helpers in Italy”.
Gli 84.000 fascicoli (non pochi dei quali contrassegnati con la lettera “D” indicante gli helpers che avevano dato la vita) contenenti la documentazione raccolta tra il 1944 e il 1947 con cura scrupolosa dagli ufficiali della Asc, sfuggiti per poco al rogo stabilito nel cortile dell’Ambasciata britannica a Roma, furono trasportati negli Stati Uniti, dove giacciono in archivi poco frequentati. Così l’ammirazione per il valore di tanti civili italiani che emerge da circa un milione di documenti è stata trasmessa solo a pochi topi d’archivio.
A causa delle difficoltà del dopoguerra, delle grandi distanze e degli scarsi mezzi di comunicazione, solo pochi ex prigionieri riuscirono a tornare in Italia per rintracciare i propri salvatori e riabbracciarli. Da qualche anno sono però i figli e i nipoti a ripercorrere l’Italia, sulle tracce di quei Prisoners of War e dei loro salvatori, per cercare di onorare i loro antichi debiti di gratitudine.
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