Il termine datacrazia è stato introdotto da Derrick de Kerckhov, giornalista e sociologo belga-canadese, allievo e collaboratore di Marshall McLuhan. I dati sono il petrolio del XXI secolo, letteralmente, se si pensa che le compagnie con più capitalizzazione al mondo sono non più i colossi dei combustibili fossili, bensì le Big Four dell'Information Technology (IT), chiamate anche GAFA (Google, Apple, Facebook, Amazon), a cui si potrebbero aggiungere anche Microsoft e IBM.
Lo scandalo Facebook-Cambridge Analytica ha fatto emergere quale potrebbe essere il potenziale destabilizzante di un utilizzo distorto dei big data. Un ricercatore di Cambridge, Aleksandr Kogan, ha sviluppato una app per Facebook, mydigitallife, attraverso cui è stata intrapresa una campagna di “profilazione” (profiling) volta ad acquisire i dati (ovvero le abitudini, i gusti personali, le preferenze espresse sul social network) di 270.000 persone, che spontaneamente e inconsapevolmente li hanno ceduti, “abboccando” all'utilizzo dell'applicazione. Oltre ai loro, sono stati acquisiti i dati di tutti i loro contatti, arrivando a un totale di 50 milioni di persone “profilate”. Con questi dati, l'amministratore delegato di Cambridge Analytica, Alexander Nix, con i suoi collaboratori, si sarebbe occupato di confezionare messaggi altamente personalizzati, per influenzare la campagna elettorale statunitense, che ha portato all'elezione di Donald Trump, e la campagna pro Brexit.
Ad oggi l'effettivo impatto del lavoro di Cambridge Analytica sui risultati elettorali non è noto, in quanto non è mai stato effettivamente misurato. Alexander Nix, in un'intervista di Riccardo Staglianò, si era vantato di aver inciso per un 2-5%, più che sufficiente per spostare il proverbiale ago della bilancia. Ma potrebbe essere stata anche questa una delle sue operazioni di marketing, o meglio neuromarketing, quella branca che opera a braccetto con i più aggiornati studi di neuroscienze e psicologia per massimizzare l'efficacia del messaggio, elettorale o pubblicitario che sia. Il connubio tra tecnologia e studi cognitivi produce infatti quelle che a volte vengono chiamate tecnologie per la sorveglianza (surveillance technologies). "Le abbiamo in tasca, come i cellulari per esempio, o le reti sociali, le mappe digitali ragionate, per cui se io sono a Padova in questo momento il mio cellulare mi darà raccomandazioni su quali sono i ristoranti di Padova o dove bere uno spritz", spiega Stefania Milan, ricercatrice al dipartimento di new media e cultura digitale dell'universtià di Amsterdam e professoressa di media innovation all'università di Oslo. "Sono tecnologie che ci facilitano la vita ma che possono anche ridefinire il rapporto tra cittadino e istituzione e quindi la democrazia. Sono tecnologie che ci espongono sicuramente molto di più alla sorveglianza ma che ci permettono anche di agire come cittadini in maniere che non si potevano neanche immaginare fino a una ventina di anni fa".
Stefania Milan, ricercatrice all'università di Amsterdam, sta studiando l'evoluzione della società civile sotto la pressione della “datificazione”. Riprese e montaggio di Tommaso Rocchi.
Stefania Milan ha ricevuto dei fondi di ricerca per un totale di 1,5 milioni di euro dal Consiglio europeo della ricerca (ERC Starting Grant) per studiare l’impatto dei big data sulla democrazia e sulla società. Lei si definisce un'attivista digitale e il suo progetto si chiama DatActive.
“Noi siamo partiti nel 2014, appena dopo le rivelazioni di Edward Snowden, il contractor della National Security Agency, l'agenzia di intelligence digitale degli Usa, che si è reso conto che c'erano dei programmi di sorveglianza di massa che andavano contro i diritti di base e che ha deciso di denunciare. Se ti occupavi come me di hacking e di attivismo digitale erano cose che sapevi già, quello che non si conosceva era però la scala massiva del problema e della loro penetrazione nella vita privata. Abbiamo deciso di concentrarci sulla dimensione del cittadino, dell'utente medio che non è particolarmente avvezzo all'uso delle tecnologie, che magari non si interroga particolarmente, che le usa abitualmente ma non è un hacker, e abbiamo deciso di guardare come sta evolvendo la società civile sotto la pressione di quella che potremmo chiamare datificazione, la trasformazione universale delle interazioni tra umani. La datificazione ovviamente ha anche un valore monetario perché i dati possono essere venduti e scambiati”.
Secondo Stafania Milan ci sono due tipi almeno di attivismo digitale, uno proattivo e uno reattivo. “Il primo è un atteggiamento più ottimista che cerca di vedere le opportunità, come per esempio prendere dei dati dallo stato, analizzarli e poi avere una campagna sulla giustizia sociale o sulla distribuzione delle risorse che si avvale di dati numerici. Dall'altro lato c'è l'attivismo reattivo, per quelle che vengono percepite più come delle minacce a livello sistemico da parte dell'industria, da parte dello stato o da parte dei due insieme quando collaborano; un esempio è la crittografia, dove abbiamo gruppi di sviluppatori di software e di utenti che decidono che ne hanno abbastanza di essere osservati e decidono di criptare, nascondere i contenuti delle loro interazioni, delle loro mail ad esempio”.
Un'altra problematica intrinseca al mondo della “datificazione” è relativa al rapporto tra flusso di dati e flusso di informazioni, nell'era delle fake news e delle post-verità. Un social network come Facebook ha dei criteri stabiliti da un algoritmo che “decide” quali contenuti ci appaiono nella home page e quali no. E ancora una volta questi criteri si basano sui dati raccolti da Facebook relativi alle nostre preferenze, o almeno quelle che Facebook ha registrato come nostre preferenze. Il mondo che ci appare su Facebook dunque non è un mondo oggettivo, è un mondo confezionato sulla misura dei nostri like.
Un esempio concreto di un approccio critico dell'attivismo digitale è aiutare a capire come funziona Facebook. “Spesso lo scambiamo per una rappresentazione fedele del mondo quando in realtà Facebook non fa altro che mostrarci contenuti che seguono i nostri gusti, che pensa ci possano interessare. Non ne siamo molto consapevoli però”. Con l'aiuto di uno sviluppatore di software italiano, Claudio Agosti, Stefania Milan sta lavorando a Facebook tracking exposed, un software che permette all'utente medio di mappare la propria filter bubble e di capire cosa viene proposto da Facebook, secondo quali criteri, aiutandolo a compiere scelte informate.