SCIENZA E RICERCA
Ebola, nuove scoperte sulla latenza del virus nel corpo umano dopo la guarigione
Come si trasmette il virus Ebola? Ci sono due modalità principali: da una parte c'è l'ormai familiare spillover, ovvero il passaggio dagli animali, soprattutto i pipistrelli della frutta, all'uomo, mentre il passaggio successivo è da un essere umano all'altro, tramite il contatto con sangue, secrezioni e altri fluidi, come per esempio saliva, vomito e liquido seminale. La letalità di Ebola va dal 25 al 90 per cento e anche i guariti rimangono contagiosi per un certo tempo e questo significa che, anche chi riesce a sconfiggere la malattia può contribuire a diffondere l'epidemia, com'è successo, per esempio nel 2021 in Guinea, dove è stata innescata dalla riattivazione di un'infezione latente che non dava sintomi. Le tempistiche di questo periodo di latenza non sono ancora chiare, ma se prima si pensava che la durasse pochi mesi, ora un articolo pubblicato su Nature di Keita e altri suggerisce che la latenza del virus sia molto più lunga di quanto si credesse e potrebbe arrivare fino a cinque anni. Cinque anni in cui una persona guarita può viaggiare in tutto il mondo, diffondendo un'infezione con altissima letalità che rappresenta un rischio un po' ovunque, anche se la situazione più drammatica rimane quella dei paesi africani.
Per capire le implicazioni della scoperta, abbiamo intervistato Roberto Scaini, medico operatore di Medici Senza Frontiere, che ha lavorato nelle zone più colpite dalla malattia.
Servizio di Anna Cortelazzo e montaggio di Elisa Speronello
Per prima cosa, secondo Scaini bisogna rilevare che l'aumento del tempo di latenza non è il fattore più rischioso per l'Occidente, mentre peggiora la situazione in Africa dove Ebola è endemico. Se egoisticamente ci concentriamo su quello che accade vicino a noi, dovremmo preoccuparci più che altro di quello che abbiamo combinato noi occidentali con la globalizzazione, piuttosto che del virus in sé: "La storia di questa malattia - spiega Scaini - è cambiata in primis non per queste nuove modalità di trasmissioni, ma perché il mondo che abbiamo voluto anche noi occidentali non è il mondo di una volta. Un tempo per spostarsi da un villaggio all'altro ci volevano tre giorni, mentre oggi per andare da villaggio a villaggio basta un'ora. Di recente sono tornato a nella zona dove si era originata l'epidemia del 2014/2015, ed è straordinario vedere come nel 2014 ci volevano tre giorni di viaggio perché c'erano solo piste sterrate, mentre oggi c'è una bellissima strada asfaltata fino al confine con la Guinea. Questo vuol dire che un caso di Ebola nella foresta può arrivare nella capitale senza difficoltà, con tutti i problemi di amplificazione dalla trasmissione".
Insomma, il rischio è dovuto più alla costruzione di strade e al massiccio utilizzo di aerei che ai contagi di ritorno, almeno in Occidente. La nuova scoperta di Keita e dei suoi, però, deve essere approfondita, perché bisognerà individuare le precauzioni da prendere perché questo lungo periodo di latenza non porti a nuove epidemie. Il virus tende a sopravvivere in alcuni tessuti che sono meno alla portata del nostro sistema immunitario, per esempio nelle cellule riproduttive e quindi nei testicoli e nel liquido seminale. Questo si sapeva già, ma le tempistiche, che vanno comunque ancora indagate, sembrano essere molto diverse da quelle che si stimavano in precedenza, e questo espone a nuovi contagi per via sessuale senza bisogno di un ospite intermedio, come poteva essere il pipistrello della frutta.
Non conosciamo ancora le ragioni della riattivazione del virus, ma guardando ad altri modelli si può supporre che la situazione di equilibrio venga interrotta da fattori come l'invecchiamento, la malnutrizione, l'aggressione di altre malattie e che, in generale, il virus si riattivi quando il sistema immunitario diventa deficitario, proprio come accade con malattie come la varicella e la tubercolosi.
Ma come si è arrivati alla scoperta di un tempo di latenza così lungo? "Noi sappiamo - spiega Scaini - che il virus viene albergato normalmente in un ospite naturale che non si ammala della malattia, ma che gli consente di rimanere in natura. Durante il tempo di permanenza si verificano un certo numero di mutazioni nel patrimonio genetico, ma sequenziando il virus che ha dato origine all'epidemia dell'articolo si è visto che le mutazioni erano molto meno di quelle che ci si aspettava. Questo significa che il virus non era passato da un'animale all'altro per poi tornare all'uomo: non era mai uscito dall'ospite originario cioè l'uomo stesso".
E così il virus rimane silente all'interno del corpo e può essere trasmesso tramite il liquido seminale, anche se l'ospite non sviluppa di nuovo la malattia.
Proprio per questo motivo i medici consigliavano a chi guariva di avere rapporti protetti per i sei mesi successivi alla malattia, ma un tempo di latenza così lungo complica la situazione. "Ci sarebbero - conferma Scaini - dei problemi gestionali difficili da affrontare, anche dal punto di vista etico, se la scoperta venisse confermata, non lo è ancora per l'esiguità dei casi. Come succede con altre malattie a trasmissione sessuale come l'hiv, si tratta di educare il paziente e non è sempre facile, soprattutto in determinati contesti socio-culturali: sono aspetti che noi di Medici Senza Frontiere teniamo molto in considerazione, perché in primis dobbiamo rispettare i malati e i loro principi".
Un'altra delle preoccupazioni è che la scoperta di Keita e del suo gruppo possa peggiorare lo stigma sociale che già subiscono i malati. Scaini racconta infatti che molto spesso il paziente guarito che poteva tornare al suo villaggio ne veniva allontanato, perché ritenuto ancora contagioso. Può sembrare incredibile, ma lo è molto meno se pensiamo ai casi di cronaca legati al Covid-19: purtroppo l'essere umano di fronte alla malattia altrui può agire con paura, più o meno forte e razionale a seconda dei casi, e questo indipendentemente dalle latitudini.
"Se ora - conclude Scaini - si dovesse proporre questa nuova possibile modalità di trasmissione questo potrebbe rendere la vita difficile al paziente nel momento in cui dovrà essere riaccolto nella comunità".