Michael Beard, il protagonista del romanzo Solar, di Ian McEwan, è un fisico dal brillante passato, divenuto però un burocrate della scienza, un cialtrone e addirittura un ladro di idee altrui: sfruttando le scoperte di un collega, si occupa di cambiamento climatico e lavora sul modo di ricavare energia dai processi di fotosintesi delle piante. Il mondo intero lo acclama come un genio e un benefattore dell’umanità. Anche Melissa, una delle donne con cui ha una relazione, lo ritiene un portento e vorrebbe condividere il suo mondo, interessarsi ai problemi di cui lui si occupa. Melissa, racconta McEwan, «ammirava la sua missione [di Beard] e leggeva fedelmente ogni articolo sui mutamenti climatici. Una volta tuttavia gli disse che prendere l’argomento con la serietà dovuta avrebbe significato non pensare ad altro ventiquattr’ore su ventiquattro. Il resto diventava irrilevante, al confronto. Perciò, come tutte le persone di sua conoscenza, anche lei non era in grado di prendere la cosa seriamente, non fino in fondo almeno. La vita quotidiana non lo permetteva».
“ Di fronte all’enormità del problema, e contemporaneamente all’incalzare della vita quotidiana, la maggior parte delle persone non riesce a «prendere la cosa seriamente»
Ecco, il guaio è tutto qui. Di fronte all’enormità del problema, e contemporaneamente all’incalzare della vita quotidiana, la maggior parte delle persone non riesce a «prendere la cosa seriamente». Tuttavia, non sono soltanto le eventuali difficoltà economiche o le preoccupazioni per i figli a farci sottovalutare il riscaldamento globale o a impedirci di avvertirlo come “il” problema della nostra epoca, che ci riguarda già oggi da vicino.
Psicologi, neurologi, filosofi e bioevoluzionisti ci spiegano che noi sapiens abbiamo dei bias, ovvero dei pregiudizi, delle distorsioni cognitive, di cui non siamo quasi mai coscienti e che ci fanno considerare il cambiamento climatico come un problema astratto e lontano oppure ne riducono la rilevanza e l’intensità.
Per esempio, in un articolo pubblicato nel 2017 sulla California management Review, Daina Mazutis (dell’Università di Ottawa) e Anna Eckardt (della Zeppelin University di Friedrichshafen, in Germania) dividono questi bias in quattro categorie: bias della percezione, dell’ottimismo, della rilevanza e della volontà. Le due studiose si occupano soprattutto dei pregiudizi che intervengono nelle decisioni aziendali, ma la loro classificazione può essere utile anche a livello individuale, per comprendere i comportamenti di ognuno di noi nella vita di ogni giorno.
Dopo aver ribadito che il riscaldamento globale è un problema “morale” (nel senso che l’azione o l’inazione possono danneggiare o beneficiare altre persone oppure addirittura infrangere i diritti altrui), Mazutis ed Eckardt passano ad analizzare i bias più in profondità. Secondo loro, noi tendiamo a vedere gli effetti del cambio climatico come vaghi, nonché ad allontanarli nel tempo e nello spazio. E siccome gli eventi che ci accadono da vicino sono più facili da ricordare, a meno che gli effetti del cambiamento climatico non ci colpiscano direttamente la loro accessibilità cognitiva è molto bassa. Anche perché una nostra tendenza naturale è quella di sottovalutare i rischi e di esagerare i benefici di qualunque evento.
“ C'è poi il bias dell'ottimismo: crediamo che i rischi del cambiamento climatico non ci toccheranno
C’è poi il bias dell’ottimismo: tendiamo a credere che i rischi del riscaldamento globale non ci toccheranno e che qualche soluzione tecnica verrà prima o poi trovata, riducendo così l’«intensità morale» del problema. E siccome (eccoci al bias della rilevanza) i numeri che ci raccontano il cambiamento climatico ci appaiono in fondo piccoli (2 gradi non sembrano molti, il 2050 è ancora lontano…), questa tendenza viene ancora più rafforzata, continuando a spingere verso l’inazione.
Siamo, per di più, calibrati per dare maggiore importanza ai risultati immediati, alle gratificazioni vicine nel tempo, che a quelli su una scala temporale più vasta: pochi, maledetti e subito, insomma; ed è evidente che questa distorsione cognitiva ci impedisce spesso di valutare i risultati e le gratificazioni ottenibili con politiche ambientali corrette, i cui effetti potremo vedere fra qualche anno.
Infine, il bias della volontà: tendiamo a scaricare le responsabilità, a pensare che il cambiamento climatico sia un problema di cui devono occuparsi i governi, le istituzioni, e non noi. Anche perché, adottando iniziative concrete di mitigazione, aziende e individui temono di trovarsi in svantaggio competitivo.
Più o meno alle stesse conclusioni arriva lo psicologo e attivista ambientale norvegese Per Espen Stoknes in un libro dal titolo chilometrico (What We Think About When We Try Not To Think About Global Warming, Chelsea Green Publishing, 2015), elencando almeno cinque barriere cognitive rispetto al cambiamento climatico:
La distanza. “Bombe d’acqua”, cicloni tropicali in Europa, scioglimento dei ghiacci, inondazioni, siccità, incendi sono sempre più frequenti, ma ci sembrano colpire ancora una parte piccola del pianeta. Così tendiamo a credere che gli effetti più forti siano ancora lontani nel tempo.
La condanna. Spesso il cambiamento climatico ci viene raccontato come un disastro irrimediabile, che porterà inevitabilmente a una catastrofe. Siccome noi siamo istintivamente avversi al lutto, in mancanza di soluzioni pratiche immediate tendiamo a evitare l’argomento per non sentirci impotenti. Così i messaggi catastrofici ci si ritorcono contro.
La dissonanza. Sappiamo che utilizzare fonti fossili contribuisce al riscaldamento globale, ma finiamo comunque per guidare, volare, mangiare carne… E siamo così vittime di una dissonanza cognitiva che ci spinge a sottovalutare i fatti per non sentirci in colpa nella nostra vita quotidiana (ancora lei!).
La negazione. Il diniego di ciò che sta già accadendo, dei “fatti” provocati dal cambiamento climatico, è un istintivo meccanismo di autodifesa, a cui spesso ricorriamo senza esserne consapevoli. Non tutti i negazionisti, dunque, sono per forza di cose ignoranti, stupidi o privi di sufficienti informazioni.
L’identità. Le notizie che ci arrivano vengono filtrate dalla nostra identità personale e culturale. Tendiamo, perciò, a cercare informazioni che confermino idee e supposizioni che abbiamo già in testa, che ci confermino nelle nostre convinzioni. Se i dati che raccogliamo ci richiedono grandi cambiamenti della nostra identità personale, allora è probabile che non li accoglieremo.
Brutt’affare. E allora? «Naturalmente» scrive Matteo De Giuli in un articolo su Not del febbraio scorso (not.neroeditions.com/riscaldamento-globale-medusa/), «ci sono centinaia di altri motivi che ci tengono ancora lontani da una strategia per la mitigazione dei cambiamenti climatici: gli interessi economici, la lentezza delle diplomazie, gli scontri tra modelli di sviluppo, gli Stati Uniti, l’India, il puro egoismo, la grande cecità e tutte quelle cose che abbiamo imparato a conoscere così bene negli anni. Però catastrofismo e allarmismo non funzionano. Bisogna trovare un tono diverso per uscire dall’apatia di questo nostro eterno presente».