Kenny Karpov / SOS MEDITERRANEE
Alla fine la nave Aquarius, caricati rifornimenti e viveri, dirigerà la prua verso il porto di Valencia anziché verso l’Italia, accompagnata dal suo carico di volti e di storie, di disperazione e di speranze. Il primo braccio di ferro internazionale del nuovo governo si chiude con un’apparente vittoria, che lascia però perplesso più di qualche studioso. Tra questi Paolo De Stefani, ricercatore e docente nel campo della tutela internazionale dei diritti umani presso il Dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e studi internazionali dell’università di Padova. “Il governo italiano, per ottenere un dubbio vantaggio politico, ha creato le condizioni per una crisi umanitaria perfettamente evitabile”, spiega De Stefani a Il Bo Live.
Cosa deve fare adesso il governo italiano?
“Vista la dichiarazione di disponibilità da parte delle autorità spagnole a ricevere i 600 profughi tratti in salvo, logica vorrebbe che le autorità italiane, che evidentemente hanno pieno controllo della situazione, prendano le misure necessarie per consentire lo sbarco in sicurezza dell’Aquarius in un porto spagnolo, ovviamente in collaborazione con le autorità di questo paese. L’operazione appare però abbastanza irrazionale, visto che dall’attuale posizione della nave la Spagna dista 1500 miglia, l’Italia appena una trentina”.
#Aquarius ha ricevuto conferma: il porto sicuro è #Valencia. I rifornimenti sono a bordo.
— SOS MEDITERRANEE ITA (@SOSMedItalia) 12 giugno 2018
I team sono sollevati che si inizi a trovare una soluzione sebbene il risultato sia un prolungamento del tempo in mare non necessario per i naufraghi e una riduzione dei mezzi di soccorso. pic.twitter.com/ZK4Is59AhV
Quali sono i diritti dei migranti a bordo della nave, e in generale di coloro che lasciano le coste libiche con i barconi?
“Sono i diritti di qualunque individuo che si trovi in una situazione di rischio per la propria incolumità. L’obbligo del comandante dell’Aquarius è di provvedere alla loro sicurezza portandoli, sotto il controllo di un’autorità nazionale di coordinamento dei soccorsi, in un porto sicuro. Fin dall’inizio delle operazioni, l’autorità di coordinamento è stata quella italiana. È strano che poi lo stesso governo italiano si sia rifiutato di far sbarcare i profughi in Italia. Qualunque danno dovesse derivare ai 600 profughi presenti sull’Aquarius (decessi, malattie…) comporterebbe (comporta già ora, probabilmente) la responsabilità internazionale dello stato italiano in base alla Convenzione europea dei diritti umani. L’Italia inoltre sta negando ai profughi il diritto di chiedere asilo politico o altra forma di protezione internazionale, impedendo loro l’accesso ai porti, in violazione della Convenzione sui rifugiati”.
Perché altri Paesi hanno chiuso i porti e perché le navi delle Ong portano i migranti solo in Italia?
“Altri paesi non hanno porti nelle vicinanze delle acque in cui avvengono i soccorsi. Le operazioni nel Mediterraneo delle navi dell'operazione Themis dell’UE prevedono sistematicamente il coinvolgimento della centrale operativa della guardia costiera italiana, e quindi quasi automaticamente lo sbarco delle persone tratte in salvo in un porto italiano. Teoricamente la consegna potrebbe avvenire alle autorità del paese più vicino e che offre la migliore protezione – anche alla Libia, se questa offrisse condizioni minime di accoglienza. Nessun profugo tratto in salvo da navi dell’UE o di un’Ong è stato però consegnato alla Libia, per ovvie ragioni. Malta si è sempre sistematicamente opposta alla consegna nei suoi porti di profughi, in quanto ritiene di non avere le risorse per provvedere a tali persone. Per rafforzare questa sua linea, non ha ratificato un emendamento alla convenzione SAR teso proprio ad alleggerire la posizioni dei comandanti delle navi che traggono in salvo naufraghi. Anche la Tunisia di regola si rifiuta di ammettere sbarchi di persone che non siano di cittadinanza tunisina, adducendo di non avere le risorse per provvedere ala loro sicurezza. Altri paesi (Spagna, Francia, Grecia…) sono evidentemente troppo lontani dalle zone di soccorso per rendere ragionevole il loro trasporto a giorni di navigazione dall’area in cui il soccorso è avvenuto. Le operazioni di soccorso, come già detto, sono state coordinate dalla centrale operativa della guardia costiera italiana, l’unica in grado di operare nell’area compresa nella zona che viene impropriamente attribuita alla competenza di ricerca e soccorso della Libia (che in effetti non ha i mezzi per presidiarla)”.