SOCIETÀ

I 100 anni della lotta nonviolenta

Nonostante non fosse la prima volta che Gandhi utilizzò la nonviolenza, il 1920 segna il primo successo di quel innovativo atto politico e prepara il lungo percorso che sfocerà poi, solo nel 1947, nell’indipendenza dell’India dalla corona inglese. Quindi in questo particolare 2020, il rifiuto della violenza, la disobbedienza civile, la resistenza passiva come atto politico compie 100 anni. Mohandas Karamchand Gandhi non è l’inventore della nonviolenza, ma è suo il merito di averla utilizzata per scopi politici e con successo. L’avvocato indiano utilizzò il satyagraha per la prima volta nel 1906 in Sudafrica, schierandosi in difesa degli indiani presenti in quel paese, ridotti in condizioni di quasi schiavitù e bersaglio di pregiudizi razziali. Organizza scioperi, picchetti, boicottaggi, marce di protesta, ma in molti furono malmenati e imprigionati. Qui sperimentò lo stile di vita semplice, fatto di rinunce e di autosufficienza, ma anche la creazione degli ashram, che insieme alla nonviolenza furono i presupposti che lo porteranno ad assumere il ruolo di guida nel percorso d’indipendenza dell’India.

Con il ritorno in madrepatria Gandhi, accolto come un eroe, continua ad approfondire lo stile di vita messo a punto in Sudafrica, fondando il Satyagraha ashram vicino al fiume Sabarmati, nella regione del Gujarat. Qui ammise una famiglia di intoccabili, diventando il bersaglio di biasimo da parte della comunità, così decise di scrivere una costituzione dell’ashram che prevedeva l’obbligo per gli ospiti di pronunciare alcuni voti: nonviolenza, povertà, castità, sobrietà, fedeltà alla verità, impavidità, lavoro per il pane, autosufficienza, uso del khadi (la veste tipica), opposizione all’intoccabilità e rispetto per ogni religione. Iniziano anche i primi tentativi di attuazione della lotta nonviolenta che furono talvolta timidi, e anche fallimentari, come nel caso dello sciopero generale del 1919 in risposta ai “Rowlatt Acts”. Gli inglesi quindi attuarono una feroce repressione, con lo stesso Gandhi incarcerato. Morirono 300 persone solamente ad Amritsar quando l’esercito aprì il fuoco sulla folla durante un comizio. Fu lo stesso Gandhi a fare autocritica e a sospendere la campagna di satyagraha ammettendo di aver commesso un errore di “proporzioni himalayane”. Secondo il maestro l’errore risiedette nell’aver spinto il popolo alla disobbedienza civile senza prima averlo educato adeguatamente alla nonviolenza, alle legalità e al senso del dovere. Nel 1920, quindi, arrivò la svolta: Gandhi prende le difese del califfato musulmano. Il primo agosto gli indù e i musulmani, fianco a fianco, promuovero una campagna di non cooperazione con gli inglesi. Vennero boicottate le scuole, le università, i tribunali; medaglie e onorificenze furono restituite e furono rassegnate le dimissioni dagli incarichi pubblici. Gandhi ottiene l’approvazione del programma di non collaborazione al Congresso Nazionale, quindi la Gran Bretagna cedette alle richieste del Califfato e fu costretta a fare ammenda per la strage di Amritsar. Con un grande falò a Bombay, in cui furono inceneriti i tessuti britannici, si dà simbolicamente il via al boicottaggio delle stoffe inglesi. Dietro a questa mossa si celava la convinzione di Gandhi che il filatoio a mano fosse la soluzione alla povertà dovuta dalla disoccupazione dei contadini durante l’inverno. Più in generale propose che, per far fronte alla crescente povertà del popolo indiano, bisognasse produrre in patria l’abito tradizionale indiano, il khadi, e quindi ogni indiano avrebbe dovuto indossare solo abiti di tessuto filato a mano prodotti in India. 

Questo fu quindi il primo utilizzo favorevole della lotta nonviolenta in India. Quello che seguì fu un accrescimento della notorietà del Mahatma, ma la strada verso l’indipendenza dalla Regina inglese era ancora lunga e costellata di difficoltà, insuccessi e passi falsi. Sicuramente il momento universalmente riconosciuto come il più celebre fu la Marcia del sale, e spesso si ritiene che sia questo avvenimento a segnare l’inizio della lotta nonviolenta indiana. Nel 1930 Gandhi e altri 78 satyagrahi marciano dall’ashram sul Sabarmati verso la spiaggia di Dandi. Furono 360 i chilometri percorsi a piedi in 24 giorni, con lo scopo di estrarre il sale, in aperta violazione al monopolio reale. Il popolo indiano seguì Gandhi e raccolse il sale senza pagare la relativa imposta. Brutale e immediata fu la repressione dell’esercito inglese, con violenze e svariati arresti. Nei tre mesi successivi furono arrestati 80.000 indiani, tra cui Gandhi stesso e altri membri del Congresso.

L’indipendenza dell’India arrivò nel 1947, all’indomani della seconda guerra mondiale e Gandhi non fu mai felice della divisione del territorio in due stati, l’India e il Pakistan, di religione musulmana. Seguì una guerra civile durante la quale Gandhi continuò a predicare la nonviolenza.

Letteralmente Satyagraha indica quella forza che nasce dalla verità e dall'amore

Per riscoprire la figura storica di Gandhi Mao Valpiana, presidente nazionale del movimento Nonviolento, responsabile della Casa per la nonviolenza di Verona e direttore della rivista mensile "Azione nonviolenta", propone la lettura di due libri: il primo è la sua autobiografia La mia vita per la libertà, il secondo Teoria e pratica della non violenza, curato da Pontara. Il primo affronta il pensiero filosofico con le parole del suo ideatore, mentre il secondo ne ripercorre la storia. Valpiana sottolinea anche che “non è Gandhi l’inventore della nonviolenza, che è sempre esistita, ma l’importanza di Gandhi, che diventa in questo uno spartiacque storico, consiste nel fatto che per la prima volta ha fatto della nonviolenza non solo una via individuale di salvezza per la ricerca del paradiso, ma anche uno strumento di lotta politica e di cambiamento sociale”.   

Intervista a Mao Valpiana, presidente nazionale del movimento nonviolento. Montaggio di Elisa Speronello

La nonviolenza dopo Gandhi

Molte sono state le personalità che hanno seguito gli insegnamenti di Mahatma Gandhi in questo lungo e difficile secolo di vita della lotta nonviolenta. Molte sono note, pensiamo a Martin Luther King, che forse dopo Gandhi è ritenuto uno dei principali nonviolenti della storia. Ma ci sono anche tantissimi altri nomi che rientrano a pieno titolo nell’eredità di Gandhi, sebbene alcuni possano risultare quasi sconosciuti o dimenticati. “Tutta l’azione di Martin Luther King per il movimento per i diritti civili e umani dei neri d'America è proprio ispirato al Mahatma Gandhi”, ricorda Valpiana al quale riconosce il merito di aver saputo portare i principi della nonviolenza nel cuore della società moderna, dall’Oriente induista alla società americana di orientamento evangelista. “Martin Luther King ha utilizzato tutte le tecniche della nonviolenza tranne una, il digiuno, forse perché non la riteneva immediatamente comprensibile dalla popolazione americana alla quale lui si rivolgeva” sottolinea sempre Mao Valpiana ricordando l’operato di M.L. King nella lotta per ottenere pari diritti civili degli afroamericani. Un nome meno conosciuto è invece Lanza del Vasto, fondatore della comunità dell’Arca, un pugliese di nobili origini che si è messo sulle tracce di Gandhi e che si è impegnato per l’apertura di comunità autosufficienti in Occidente. “Un altro italiano che merita più notorietà è Danilo Dolci” afferma Valpiana, ricordando le gesta nonviolente che questi ha compiuto in Sicilia, nella lotta alla povertà, alla mafia, alla disoccupazione. Un altro personaggio legato alla lotta nonviolenta in Italia è Alexander Langer, un altoatesino che si è sempre rifiutato di identificarsi in una sola etnia. Langer è nel nostro Paese colui che ha portato la nonviolenza e l’ecologia nella politica; ha fondato i Verdi, ha avuto incarichi prestigiosi anche in Parlamento Europeo, per Valpiana è riuscito in una grande impresa: “ha portato la nonviolenza nel luogo più difficile, nella politica e nelle istituzioni”. 

Ma quando si parla di pensiero gandhiano in Italia, per il professor Marco Mascia, docente di relazioni internazionali e Cattedra Unesco Diritti umani, democrazia e pace, il nome da ricordare è principalmente uno: Aldo Capitini. Filosofo della nonviolenza, Capitini fondò il movimento nonviolento in Italia, e si impegnò nella costruzione di una società senza la violenza e basata sul rispetto dei valori fondamentali, della dignità della persona umana. L’impegno di Capitini nella diffusione della lotta nonviolenta attecchisce negli anni in ampie zone dell’associazionismo italiano, nell’educazione fino ad arrivare nell’insegnamento universitario. Secondo il professor Mascia esiste un legame molto forte tra la cultura della nonviolenza nata e sviluppata in India, con la cultura dei diritti umani, che invece si afferma in occidente. Con la dichiarazione universale dei diritti del 1948 e la Carta delle Nazioni Unite del 1945 si apre una nuova fase per l’ordine internazionale, non tanto basato sui principi di sovranità degli stati, non ingerenza, ecc., ma anche su principi nuovi, quali appunto del divieto dell’uso della forza, della risoluzione pacifica delle controversie, del rispetto dei diritti umani, della cooperazione internazionale. Nel 1961 si è svolta la prima marcia per la pace e la fratellanza dei popoli Perugia-Assisi, una manifestazione pacifica ideata da Capitini e che svolge ancora con cadenza ogni due anni. Al fianco di Capitini, in questa prima marcia, ci furono molto intellettuali italiani, tra i quali anche Italo Calvino e Norberto Bobbio.

Intervista a Marco Mascia, Cattedra Unesco diritti umani, democrazia e pace. Montaggio di Elisa Speronello

La nonviolenza oggi

Passando all’attualità, Mascia sostiene che nel nostro Paese il metodo nonviolento un’espressione significativa nella storia recente, relativamente all’intervento nei territori della ex Jugoslavia durante i recenti conflitti. Per esempio nel 1992 l’associazione Beati costruttori di pace ha rotto l’assedio di Sarajevo in maniera non violenta, oppure nel 1993, la partenza dei primi contingenti chiamati “caschi bianchi”, ovvero obiettori di coscienza, verso i territori della ex Jugoslavia. E anche le pubblicazioni del 1995 di Azione nonviolenta, il giornale del movimento nonviolento, che scrive un documento per la creazione di un corpo civile di pace dell’Onu e dell’Unione Europea. Da qui, dal “basso” nasce l’idea dei corpi civili di pace e soprattutto dalle esperienze maturate nei conflitti nei Balcani. Nel 2014 viene approvato un emendamento all’interno della legge di stabilità che prevede e finanzia la sperimentazione di 500 corpi civili di pace, i quali hanno il compito di intervenire in un conflitto per trasformarlo in modo nonviolento. Finora la sperimentazione ha visto all’opera 200 volontari, divisi in due contingenti, attivi dal 2017 al 2018, e dal 2019 al 2020. Si tratta principalmente di giovani che sono intervenuti in situazioni di conflitto sociale in vari paesi del mondo, in vari ambiti (conflitti generati da emergenze ambientali, aiuto umanitario a profughi e sfollati, ecc.) La sperimentazione ha molti aspetti positivi e anche una prospettiva di dar vita nel nostro paese a un corpo civile di pace, non armato e nonviolento, che sappia promuovere processi di pacificazione.

Più in generale, i nonviolenti di oggi sono coloro che cercano di ispirarsi ai principi della nonviolenza, ma soprattutto che decidono di mettersi in gioco. La nonviolenza oggi in Italia prende forma anche all’interno di reti che mettono insieme le persone e le associazioni per grandi obiettivi comuni. Tra le quali Vapiana cita Un’altra difesa è possibile, una campagna che chiede alla politica il riconoscimento della difesa civile non armata e non violenta. Secondo il professor Mascia la cultura della nonviolenza è molto diffusa oggi, molto più che in passato, e i giovani se ne stanno impossessando, grazie al lavoro delle associazioni pacisfiste, alla scuola e all’università.

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