Tehran-Iran: il neo presidente Masoud Pezeshkian. Foto: Farhad Babaei/laif, Contrasto
Nell’attesa, sempre più densa di preoccupazioni, che si compia il più volte annunciato attacco a Israele, per “punire severamente” gli autori dell’omicidio a Teheran del leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, avvenuto il 31 luglio scorso, l’Iran tenta di disegnare il suo nuovo assetto politico interno, dopo la vittoria alle elezioni presidenziali di Massoud Pezeshkian, il più “moderato e riformista” dei candidati ammessi a partecipare.
Un’attesa che continua da allora a galleggiare pesante nei pensieri e nelle azioni delle più importanti intelligence del pianeta, con il segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin che ha annunciato (evento raro) di aver inviato nel Golfo Persico l’USS Georgia, un sottomarino a propulsione nucleare armato di missili da crociera, oltre a una seconda portaerei, la USS Abraham Lincoln, che trasporta aerei da combattimento F-35C: un’evidente manovra di “deterrenza militare” (che resta una qualificata forma di dialogo tra superpotenze), per ribadire che gli Stati Uniti sono pronti a difendere Israele “in ogni modo” da qualsiasi attacco da parte dell’Iran. E con la Cina che si è subito schierata sul versante opposto, esprimendo pubblicamente il sostegno a Teheran nella difesa della sua “sovranità, sicurezza e dignità nazionale”.
L’Iran ha appena respinto la richiesta avanzata da Francia, Germania e Regno Unito di “astenersi da qualsiasi attacco di rappresaglia che possa aumentare ulteriormente le tensioni regionali”. Mentre il presidente americano Biden, come ha scritto nella tarda serata di ieri dal quotidiano israeliano Times of Israel, sostiene che l’attacco iraniano contro Israele potrebbe addirittura essere evitato se Israele e Hamas riuscissero a raggiungere rapidamente un accordo di cessate il fuoco a Gaza. Speranze che s’intrecciano al rischio concreto che il conflitto possa improvvisamente degenerare: e le conseguenze, compresi gli “effetti domino”, si potranno calcolare soltanto quando, e se, l’attacco avverrà.
Nuovo governo, un “compromesso” che scontenta molti
Per il momento l’Iran, e sono già trascorse due settimane, non ha ancora fatto partire la sua offensiva. C’è chi sostiene che Pezeshkian (medico, professore, ex ministro della Sanità, formato all’Università di Harvard, non appartenente ad alcun partito politico) sia riuscito a convincere l’ayatollah Ali Khamenei a rinviare l’attacco a dopo la formazione del nuovo governo: voci che non trovano conferme se non nel prolungarsi dell’attesa.
Ma è vero che la formazione del nuovo governo è un passaggio non secondario per gli equilibri interni, vista la fase d’incertezza politica che si è aperta dopo la morte dell’ex presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi, lo scorso 19 maggio, precipitato mentre si trovava a bordo di un elicottero, durante un viaggio di ritorno dall’Azerbaijan. Il presidente Pezeshkian, che nelle scorse ore ha dovuto anche incassare le dimissioni a sorpresa del suo vice, Javad Zarif, esponente di spicco dell’ala riformista e vicepresidente per gli Affari Strategici, (ha lasciato l’incarico dopo appena 11 giorni di mandato, in contrasto con le scelte del presidente) ha consegnato domenica scorsa al Parlamento la lista dei 19 componenti del nuovo esecutivo. Una lista che ha scontentato molti, stando a quanto riferisce il quotidiano del Kuwait Al-Jarida: sia i riformisti, per i quali le nomine sono state poco “coraggiose”, sia i fondamentalisti, che dominano il Parlamento. Scrive Al-Jarida: «Il deputato Hosseinali Delikani, uno dei deputati influenti del movimento fondamentalista, ha detto di ritenere che 10 ministri su 19 abbiano buone possibilità di guadagnare la fiducia dei deputati, mentre almeno 6 ministri potrebbero non ottenere il sostegno dell'assemblea».
Nella lista di Pezeshkian spiccano i nomi di Abbas Araghchi come ministro degli Esteri (diplomatico di carriera e componente del team che nel 2015 negoziò l’accordo con Stati Uniti ed Europa sul controllo del programma nucleare di Teheran), e del riformista Abdolnasser Hemmati come ministro dell’Economia. C’è anche spazio per una donna, Farzaneh Sadegh, 47 anni, laureata in pianificazione urbana, indicata come ministra delle strade e dell’edilizia abitativa: qualora la sua candidatura fosse accolta dal Parlamento (ma sono già molti i malumori espressi dai fondamentalisti) sarebbe la seconda donna a ricoprire un incarico ministeriale dal 1979, anno di fondazione della Repubblica Islamica (la prima era stata Marzieh Vahid Dastgerdi, ministra della Sanità nel 2009 con il presidente Mahmoud Ahmadinejad). La prima ministra donna nella storia dell’Iran è stata Farrokroo Parsa, titolare del dicastero dell’istruzione dal 1968 al 1971, una delle più importanti sostenitrici dei diritti delle donne in Iran: fu impiccata dalle “autorità rivoluzionarie” nel 1979, quando la monarchia filo-occidentale fu rovesciata dagli islamisti, con l’accusa di corruzione.
Un ex Pasdaran agli Interni
Per il delicato ruolo di ministro degli Interni il presidente iraniano ha sàcelto il generale Eskandar Momeni, ex membro dei Pasdaran, considerato relativamente moderato. Nomina delicata perché a lui spetterebbe la “gestione” dell’applicazione della legge sull’hijab, il velo islamico obbligatorio, che nel settembre 2022, dopo la tragica vicenda di Masha Amini, la ragazza curda di 22 anni prelevata dagli agenti della polizia morale perché indossava il velo in modo non corretto (spuntava una ciocca di capelli), e ammazzata di botte all’interno di un furgone, aveva scatenato enormi e clamorose manifestazioni di protesta, represse dalle forze dell’ordine con oltre 500 vittime (un’indagine delle Nazioni Unite ha appurato pochi mesi fa che l’Iran è responsabile della “violenza fisica” che ha portato alla morte della ragazza).
L’attuale presidente Pezeshkian, che all’epoca era deputato, sostenne che «è inaccettabile per la Repubblica islamica arrestare una ragazza per l’hijab e poi consegnare il corpo alla famiglia». Alla fine del 2023 il governo aveva varato norme ancora più severe anche per gli attivisti che avevano così apertamente sfidato il regime (soprattutto del Movimento “Donna, Vita, Libertà”, nato sull’onda di quelle proteste), ma anche per i dissidenti politici e per i giornalisti.
Il Parlamento iraniano ha ora due settimane di tempo per votare l’approvazione, singolarmente, per ciascuno dei ministri indicati. Il voto di fiducia per il futuro governo è calendarizzato per mercoledì 21 agosto. Ma è evidente che qualora l’ayatollah Khamenei dovesse decidere, in assoluta autonomia, di sferrare l’attacco contro Israele, queste formalità sarebbero le prime a saltare.
Tutto sta a vedere tra chi, a questo punto, riuscirà a prevalere, tra fondamentalisti e moderati. E il nuovo presidente ha davvero “voce” per farsi ascoltare dalla Guida Suprema? Pezeshkian (che all’epoca delle critiche contro la polizia morale espresse per l’omicidio di Masha Amini era stato escluso dalle liste delle presidenziali e poi riammesso solo grazie all’intervento personale di Alì Khamenei, che probabilmente l’ha inserito nel novero dei candidati solo per aumentare l’affluenza alle urne) è certamente più moderato del suo predecessore Raisi, ma questo non vuol dire che avrà la forza, e il seguito, per far cambiare traiettoria all’Iran. Durante la sua campagna elettorale ha più volte ribadito la sua assoluta fedeltà alla Guida Suprema e allo stato islamico. E si è ben guardato dal promettere cambiamenti radicali.
Scrive, sull’autorevole rivista americana di politica internazionale Foreign Affairs, Mohammad Ayatollahi Tabaar, professore associato di affari internazionali presso la Bush School of Government and Public Service della Texas A&M University: «La vittoria di Pezeshkian porterà ad alcuni cambiamenti politici. Il suo governo, ad esempio, potrebbe concludere un modesto accordo nucleare con Washington. Potrebbe anche creare uno spazio sociale e politico per i suoi cittadini, in particolare per i giovani e le donne. Se realizzate, le sue misure allevieranno le difficoltà della vita quotidiana degli iraniani e favoriranno un senso di speranza e ottimismo. Ma nel complesso, è probabile che Pezeshkian governi in perfetto coordinamento con il leader supremo, proprio come ha fatto Raisi. Il paese manterrà le sue politiche regionali assertive e il suo programma nucleare. Rafforzerà le sue amicizie con la Cina e la Russia e continuerà a sciogliere i legami con i paesi vicini. Garantirà che il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC) mantenga la sua autonomia economica e politica, consentendogli di continuare il suo comportamento corrotto e di continuare a reprimere i dissidenti. L’Iran può avere un nuovo presidente sorprendente, ma il futuro dell'Iran sembra ancora il suo passato».
Impiccato un dissidente: 358 esecuzioni solo quest’anno
Intanto non si placa la furia del regime fondamentalista contro i dissidenti. A suon di esecuzioni: l’ultima il 6 agosto scorso, all’alba, quando un uomo di 34 anni, Gholamreza Rasaei, curdo, della minoranza religiosa yaresan, è stato impiccato in gran segreto, in una località della provincia di Kermanshah, con l’accusa di aver preso parte a manifestazioni del movimento di protesta “Donna, Vita, Libertà”. Scrive Amnesty International: «Mentre l’attenzione dei media globali e nazionali si è concentrata sulle tensioni regionali con Israele, le autorità iraniane hanno effettuato l’orribile esecuzione arbitraria in segreto di un giovane che era stato già sottoposto a tortura e altri maltrattamenti durante la detenzione, compresa la violenza sessuale, e poi condannato a morte dopo un processo farsa. Questa esecuzione mette a nudo ancora una volta come il sistema di giustizia penale iraniano sia marcio fino al midollo e mette in evidenza la determinazione mortale delle autorità iraniane a usare la pena di morte come strumento di repressione politica per instillare la paura tra la popolazione».
Secondo il sito Iran Human Rights, soltanto nel 2024 le esecuzioni ordinate dal regime sono state finora 358 (15 le donne), mentre dal 2010 le condanne a morte eseguite sono state 8187. Mentre è di poche ore fa la notizia di un’altra donna, Arezoo Badri, 31 anni, madre di due figli, raggiunta da un colpo di pistola sparato dalla polizia iraniana il 22 luglio scorso a un posto di blocco nella città di Noor, perché ritenuta colpevole di non aver indossato a dovere l’hijab (e l’autista non si è fermato all’alt della polizia). Secondo la Bbc, che cita fonti locali, la donna è ora ricoverata in ospedale, paralizzata dalla vita in giù. Il quotidiano egiziano Al Bawaba riporta il commento di Masih Alinejad, un giornalista iraniano che vive negli Stati Uniti: «Questa è la guerra della Repubblica islamica contro le donne»
Preoccupano intanto le condizioni di Narges Mohammadi, 52 anni, giornalista e attivista, vincitrice del premio Nobel per la pace 2023, premiata dall’Accademia svedese “per la sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran e il suo sforzo per promuovere i diritti umani e la libertà per tutti”. È nel carcere di Evin, a Teheran, dal 2021 (per aver accusato le forze di sicurezza di aver stuprato diverse detenute), e da lì scrive lettere per denunciare le violenze estreme subite quotidianamente dalle donne. Il 6 agosto scorso, quando si sparge la voce dell’esecuzione di Reza Rasaei, le donne del braccio femminile della prigione di Evin si sono date appuntamento nel cortile per gridare slogan contro la Repubblica islamica. Una protesta pacifica, presto interrotta dalle guardie che hanno picchiato le detenute. I familiari dell’attivista (che vivono a Parigi) hanno detto che dopo essere stata colpita al torace, Mohammadi ha avuto un attacco respiratorio e un intenso dolore al petto, che l’ha fatta svenire, a terra, nel cortile della prigione. «Siamo profondamente preoccupati per la sua salute». La direzione del carcere ha negato che le prigioniere siano stati picchiate.