SOCIETÀ

Afghanistan, il Paese senza pace

Adesso anche il terremoto. Tanti probabilmente lo hanno pensato, dentro e fuori l’Afghanistan, quel fatidico 21 giugno. La scossa di magnitudo 5.9 registrata intorno all’una e mezza di notte vicino alla città di Khōst, nella provincia orientale di Paktika al confine con il Pakistan, si aggiunge infatti a una crisi umanitaria senza precedenti che minaccia la sopravvivenza stessa di intere comunità in una delle zone più povere del Paese. Per il momento si stimano oltre 1.000 decessi, ma dopo oltre due settimane probabilmente nessuno sa ancora la cifra esatta, così come non si conosce il numero delle persone che hanno perso la casa e quel poco che avevano.

A quasi un anno dal precipitoso abbandono del Paese da parte da parte degli occidentali il governo dei Talebani prova a gestire la crisi, ma si scontra con la drammatica carenza di mezzi, di organizzazione e di infrastrutture, come evidenzia Christina Goldbaum nel reportage pubblicato dal New York Times. Sia come sia, nessuno oggi sembra aver voglia di piangere e di pregare per gli afghani. Solo poche Ong al momento stanno cercando di portare aiuto al Paese: tra queste Emergency, che ha approntato una prima clinica mobile nella vicina città Barmal visitando in pochi giorni centinaia di persone ferite o ammalate. Una goccia rispetto alle reali esigenze della popolazione: si stima infatti che solo nell’area colpita dal terremoto oltre 360.000 persone abbiano bisogno di assistenza umanitaria.

Laura Silvia Battaglia, giornalista, autrice e documentarista specializzata nelle aree di crisi, è stata in Afghanistan negli anni delle missioni internazionali Isaf tra il 2008 e il 2011, mantenendo anche successivamente un forte legame con il Paese. “Tramite un programma internazionale ho avuto anche l’opportunità di formare 30 giornalisti e soprattutto giornaliste per Radio Herat, molti di loro sono anche venuti in Italia per degli stage presso i media italiani – spiega Battaglia –. Oggi purtroppo la maggior parte di loro è in occidente”. Dallo scorso anno la giornalista assieme al Frontline Freelance Register sta cercando di ricollocare in Europa e Stati Uniti parecchi giornalisti in fuga dall’Afghanistan: molti però sono ancora bloccati senza visto in Pakistan o negli altri Paesi confinanti. “Tutto questo è molto frustrante perché queste persone hanno profondamente creduto nel rinnovamento del Paese e nei diritti umani di cui ci piace tanto parlare: quando però hanno avuto bisogno di una mano per loro non c’è stato posto”.

Qual è oggi la situazione in Afghanistan?

“Quella di un Paese che viene da oltre 40 anni di conflitti, dei quali gli ultimi 20 particolarmente duri. E che per la sua conformazione geologica è inoltre continuamente soggetto a terremoti; moltissimi negli ultimi anni soprattutto nell’area dell’Hindukush: due volte nel 1998, nel 2002 e nel 2015, solo per citare i più devastanti. Per quanto riguarda l’ultimo sisma il ministero della sanità locale ha parlato di 35 villaggi distrutti; in uno solo di questi, Gayan, sono morte 250 persone. Decisamente un disastro”.

Il governo dei Talebani come sta gestendo la crisi?

“Le forze governative dell’emirato islamico si sono precipitate nell’area in parte con gli elicotteri, quelli lasciati dagli americani, in parte via terra. Intervenire è però molto complesso perché qui si è sempre combattuto: gli americani con i talebani e i talebani con i villaggi che prima appoggiavano il vecchio governo. Anche per questo l’area non è mai stata sottoposta veramente a ricostruzione: non ci sono strade, scuole, strutture e ospedali”.

Nonostante oltre 2.000 miliardi di dollari spesi in 20 anni nel Paese per percorrere poco più di 150 chilometri che separano la zona colpita dalla capitale Kabul servono infatti ancora più di 24 ore in automobile. Povertà e arretratezza sono tali da rendere difficile persino stabilire le dimensioni del sisma: come evidenziato da un articolo di Nature la situazione del Paese infatti impedisce di condurre le attività di studio e di monitoraggio, mentre quasi tutti gli enti scientifici e di ricerca sono non operativi o compromessi.

E la comunità internazionale?

“I talebani hanno chiesto aiuto, inoltre hanno promesso ai sopravvissuti 100.000 afghani, equivalenti a circa 1.300 dollari, per la perdita di ogni familiare. Non si sa però se queste promesse potranno essere mantenute, tenuto conto del debito pubblico altissimo e del fatto che gli aiuti sono congelati per via delle sanzioni. Solo per l’ultimo terremoto sarebbero necessari almeno 110 milioni di dollari, attualmente però le Nazioni Unite sembrano disposte a stanziare solo 15 milioni per i bisogni immediati”.

Evidentemente l’obiettivo è di non sostenere il governo dei talebani.

“Che però sono al potere perché glielo hanno permesso gli accordi di Doha. A pagare il prezzo per il momento sono i civili, e questo viene usato dai talebani per la loro propaganda”.

Qual è la situazione politica interna?

“In questi giorni quindi, a parte le vicende del terremoto, c’è stata la grande conferenza degli ulema, quella che un tempo veniva chiamata loya jirga: 3.000 uomini radunati a Kabul tra capi delle amministrazioni, rappresentanti delle comunità ma anche dei signori della guerra. La cosa più rilevante è che in questa occasione si è fatto vedere di persona il leader dei talebani, il mullah Hibatullah Akhundzada: un’entità quasi sacra e irraggiungibile, che ha fatto un discorso molto duro contro l’occidente e sulla necessità di non cedere alle pressioni esterne. Soprattutto sulla parità di genere”.

Nell’assemblea erano presenti anche delle donne?

“Nemmeno una. A chi ha mosso riserve è stato risposto che le donne erano rappresentate dai loro fratelli. La questione specifica era quella dell’educazione femminile, persino a livello elementare, ma il concetto di questa linea oltranzista rappresentata da Akhundzada è che lo spazio pubblico è completamente proibito alle donne. Si ritorna ai primi tempi dei talebani: stavolta però è peggio, dopo dieci anni di tentativi di andare avanti. Saranno anche talebani 3.0, ma se si affidano a un capo del genere non siamo messi granché bene”.

È essenziale tenere un canale diplomatico aperto per portare gli aiuti umanitari

Come aiutare il Paese? Si deve collaborare con i Talebani?

“Ci sono vari livelli di azione. A livello internazionale si deve riflettere sull’opportunità di tenere comunque un filo diretto, per quanto labile, con la parte governo afghano più incline al dialogo, anche se non moderata. Linea che oggi paradossalmente è rappresentata dagli Haqqani, un gruppo specializzato nella produzione e nel commercio mondiale dell’oppio. Può sembrare stano perché sono stati tra i principali sostenitori di Al Qaeda, alcuni di loro sono stati eliminati dai droni durante la missione Isaf, altri richiusi a Guantanamo. Fanno però la guerra per diventare ricchi, quindi pur di tenere aperte le linee del commercio sono più inclini a dialogo, persino sulla questione femminile”.

Personaggi poco raccomandabili…

“In politica però ci può stare tenere un canale aperto per consentire quanto meno di far arrivare gli aiuti sanitari e umanitari indispensabili, soprattutto adesso che si sta andando verso una crisi alimentare mondiale. Teniamo presente che oggi gran parte degli aiuti internazionali stanno andando in Ucraina, e questo senza dubbio non aiuta chi vive in Afghanistan, ma ad esempio anche in Yemen o in Congo. Questi Paesi non hanno una produzione interna di beni primari, li importano quasi interamente scambiandoli con altri beni come il petrolio o, appunto, l’oppio. Se due dei più grandi produttori di cereali come Russia e Ucraina sono in guerra è chiaro che questo rischia di destabilizzare tutto. Non dimentichiamo che le primavere arabe del 2011 sono cominciate come rivolte per il pane”.

Cos’altro si può fare?

“Un secondo livello possibile di collaborazione riguarda poi le rappresentanze diplomatiche e consolari. È fondamentale riuscire a tenere aperto almeno uno spiraglio, se non in Afghanistan perlomeno in Paesi vicini come il Pakistan, per consentire a chi ne fa richiesta di andare all’estero. Non solo agli intellettuali ma ad esempio anche agli studenti e alle studentesse. Teniamo presente che ogni Paese ha una quota di richiedenti asilo che intende ospitare ogni anno: tanti però in occidente oggi preferiscono però accogliere soprattutto quelli provenienti dall’Ucraina e dall’Europa dell’est”.

E per chi rimane?

“Bel problema. Rimanere oggi significa doversi piegare per non fare una brutta fine. Bisogna capire a quanti livelli si possa contrastare il regime dall’interno: le donne ad esempio ci hanno provato e qualcuna continua. Tenendo però presente che prima bisogna risolvere le necessità basilari, avere cibo e medicinali: oggi in Afghanistan queste cose purtroppo vengono prima dei dritti umani e civili. È comunque fondamentale aiutare chi nonostante tutto continua a resistere, e soprattutto non far sentire sole le persone che ci chiedono una mano”.

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