Le crisi bancarie non nascono dal panico, ma questo ne aggrava notevolmente l’entità e le conseguenze: così uno studio appena pubblicato sul Quarterly Journal of Economics, la più antica rivista scientifica economica di lingua inglese, edita dal Department of Economics di Harvard.
Finora da molti analisti i default bancari erano percepiti soprattutto come conseguenze del panico tra investitori e correntisti, spesso in relazione a fughe di notizie di origine incerta o addirittura sospetta. Le lunghe file presso gli sportelli fanno parte dell’immaginario associato alle maggiori crisi, dal crack del ’29 in avanti: da questo punto di vista il paper mette in luce la stretta anche se complessa connessione tra finanza e fiducia, ma allo stesso tempo sottolinea come quest’ultima poggi in ultima istanza sull’economia reale.
I tre autori dello studio – Matthew Baron (Cornell University), Emil Verner (MIT Sloan School of Management) e Wei Xiong (Princeton) – hanno preso in considerazione dati provenienti da 46 Paesi in lasso di tempo che va dal 1870 al 2016. Il risultato è un’estesa ricerca che mette in risalto soprattutto tre aspetti: le crisi bancarie hanno sempre radici nell’economia reale, in particolare nell’ammontare dei crediti in sofferenza; in secondo luogo esse hanno sempre un effetto depressivo sull’economia reale, ci siano o no episodi di panico e di corsa agli sportelli; questo infine non toglie che l’ansia nei mercati tenda ad ampliare in maniera non trascurabile le conseguenze negative delle crisi.
In particolare mentre le crisi bancarie ‘tranquille’ porterebbero in media a una discesa di 3,5 punti nel rapporto medio tra credito e Pil, in quelle ‘impanicate’ la diminuzione sarebbe di 5,7 punti (il 60% in più). La stretta sul credito a sua volta avrebbe conseguenze negative sugli investimenti e quindi su settore primario, manifatture e servizi, comportando una diminuzione del tasso di crescita quando non una vera e propria recessione. In sostanza, scrivono gli autori, una caduta del valore azionario del settore bancario ha sempre effetti negativi sull’economia reale.
Usando i dati raccolti su oltre 100 crisi verificatesi in quasi 150 anni gli studiosi hanno anche riscontrato che di norma gli episodi di panico non precedono bensì seguono in media di sette mesi la caduta del valore delle azioni degli istituti di credito, la quale a sua volta è solitamente conseguente a politiche fallimentari di concessione dei prestiti. Il diffondersi della paura tra correntisti e investitori insomma assomiglia più al colpo di grazia piuttosto che alla causa scatenante.
“ Più che alla causa scatenante nelle crisi bancarie il panico assomiglia al colpo di grazia
La crisi del 2008
“Nell’ampia letteratura sul tema il valore aggiunto di questo studio è di raccogliere dati nuovi da tantissimi Paesi, dando una visione concreta e aggiornata del legame tra crisi bancarie ed economia reale”, spiega a Il Bo Live l’economista dell’università di Padova Lorenzo Rocco.
La memoria corre soprattutto alla crisi dei cosiddetti subprime, che nel 2008 portò al fallimento di grandi banche d’affari come Bear Stearns e soprattutto Lehman Brothers. Come ha raccontato anche il film The Big Short – La grande scommessa, già alcuni mesi prima che divenisse di dominio pubblico alcuni operatori finanziari si erano resi conto da alcuni parametri della fragilità del settore mutui e che la bolla del mercato immobiliare stava per esplodere.
“In quel caso l’errore iniziale del governo americano fu di non salvare Lehman Brothers – continua Rocco –. Chi ha sbagliato deve pagare ma bisogna evitare che questo inneschi una reazione a valanga, che nella crisi del 2008 si è poi riversata sulle assicurazioni e infine anche sulle banche europee. Col senno di poi sarebbe stato molto meglio ricapitalizzare subito gli istituti in difficoltà; lasciar correre la crisi è come dare fuoco alle polveri: in una frazione di secondo le reazioni diventano incontrollabili”.
I governi sono dunque condannati a salvare ogni volta la finanza? “Direi di sì: il credito è strutturalmente fragile, anche se gli istituti possono limitare il margine di incertezza con riserve in liquidità, di titoli e di proprietà immobiliari che ne garantiscano la solvibilità. Il problema nasce quando tutti vogliono contemporaneamente indietro i loro soldi: per questo quando c’è uno shock anomalo dell’economia diventano giocoforza necessari interventi di sostegno alle banche”. In questo scenario rimane centrale il ruolo della fiducia come collegamento tra finanza e cosiddetta economia reale: “Nella finanza le aspettative sono determinanti e oggi spetta soprattutto alle banche centrali il compito di governarle e di guidarne la formazione”.
“ Le banche oggi sono molto più solide rispetto al 2008 Lorenzo Rocco, economista
La situazione con il post Covid
È dunque vitale gestire le crisi bancarie prima ancora che l’ansia si impadronisca dei mercati: anche per questo la ricerca di Baron, Verner e Xiong è indirizzata principalmente ai policymakers, ai quali è stata illustrata nel dettaglio durante incontri a cui hanno partecipato esponenti della Federal Reserve e di istituzioni finanziarie internazionali. Tra i suggerimenti viene evidenziata l’importanza di una ricapitalizzazione tempestiva degli istituti in crisi, rispetto a una strategia limitata all’immissione massiccia e protratta di liquidità nel sistema.
Non ha senso insomma parlare di finanza come di qualcosa di separato dall’economia reale: i due settori sono connessi al punto da non poter essere salvati separatamente. Un concetto da tenere tanto più presente in una situazione economica funestata dalla pandemia. Al momento, come ha spiegato qualche settimana fa sul Il Bo Live l’economista dell’università di Padova Luciano Greco, nel tentativo di non chiudere moltissime aziende sono state costrette ad indebitarsi fino al collo, sostenute dalla politica monetaria della Bce e dalle garanzie concesse dallo Stato italiano sui prestiti (che arrivano in alcuni casi al 100% dell’importo erogato, secondo i meccanismi del cosiddetto Decreto liquidità).
Nell’ultimo anno le politiche della banca centrale e del governo hanno dato una mano al settore bancario, che dopo aver conosciuto all’inizio della pandemia un crollo del 40% del valore delle azioni ha progressivamente ridotto le perdite. Il problema è che nel medio-lungo periodo la massa delle zombie firms tenute artificialmente in vita dai provvedimenti sul Covid rischia di rivelarsi una vera e propria bomba a orologeria, che attraverso i crediti deteriorati mette a rischio la stabilità delle banche e, in ultima istanza, delle finanze pubbliche.
Finora il sistema creditizio ha saputo reagire alle sfide imposte dal Covid – ha detto Andrea Enrìa, a capo del consiglio di sorveglianza della Bce e prima ancora presidente dell'EBA, l'autorità bancaria europea – ma il calo dei fatturati rischia comunque di erodere il capitale degli Istituti, in particolare quelli più piccoli. “Attenzione però: con la cura successiva alla crisi del 2008 gli istituti di credito, compresi quelli italiani, sono oggi molto più solidi dal punto di vista patrimoniale – conclude Lorenzo Rocco –. C’è inoltre una regolamentazione più severa, con una serie di stress test che indicano gli investimenti troppo rischiosi. Per questo con l’inizio della pandemia c’è stato timore per gli utili, ma nessuno ha messo in discussione la solvibilità delle banche”. Niente panico insomma, anche se per rilassarsi conviene aspettare.
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