Bill Gates al World Economic Forum di Davos, 2013
William Henry Gates III, meglio conosciuto come Bill, ha deciso di passare la mano lasciando il consiglio di amministrazione di Microsoft, l’azienda fondata 45 anni fa assieme a Paul Allen. Già da diversi anni per la verità sembrava occuparsi soprattutto della fondazione che porta il suo nome e quello della moglie Melinda, una delle più importanti charity internazionali in tema di salute e di educazione, concedendosi ogni tanto un po’ di spazio per un numero selezionatissimo di conferenze e interventi molto inspiring, in cui spesso si divertiva a tracciare scenari sul futuro della tecnologia e non solo. In questi giorni ad esempio è molto popolare quello in cui, traendo spunto dall’epidemia di Ebola di cinque anni fa, “prediceva” che il maggior pericolo per l’umanità sarebbe venuto proprio da un virus.
Non che ci abbia sempre azzeccato, il vecchio Bill. Protagonista indiscusso della prima informatizzazione di massa assieme all’amico/nemico Steve Jobs, fu ad esempio meno preveggente nel capire l’impatto di internet sulle nostre vite. In seguito la posizione di monopolio di Microsoft e i conseguenti abusi – molti ricorderanno gli scontri con le autorità antitrust su Internet Explorer e Windows Media Player – contribuirono non poco ad alienargli le simpatie del grande pubblico. Forse anche per questo negli ultimi anni era sembrato concentrarsi su altro, sull’esempio di molti tycoon che con il tempo si dedicano sempre più alle loro passioni: come il fondatore di Oracle Larry Ellison con i suoi yacht (altra tradizione da magnati anglosassoni), con cui peraltro ha vinto anche l’America’s Cup.
Mentre però Ellison conserva un ruolo non secondario nella compagnia che ha creato, Gates stavolta ha deciso di lasciare ogni carica ufficiale, pur specificando di non voler tagliare i ponti con Microsoft. Allo stesso tempo l’ormai ex uomo d’affari ha annunciato l’uscita dal board del fondo Berkshire Hathaway guidato dall’amico Warren Buffet, che per certi versi incarna un modello diametralmente opposto, continuando alla soglia dei 90 anni a dirigere la propria società e a concentrarsi quasi esclusivamente sul business. Sono leggendari a questo riguardo i gusti spartani dell’‘oracolo di Omaha’, che con una fortuna di decine di miliardi continua a nutrirsi di hamburger e a vivere nella stessa villetta comprata nel 1958 per 31.500 dollari.
Su una cosa però sia Gates che Buffet sono d’accordo: entrambi hanno annunciato di voler lasciare la grandissima parte delle loro sconfinate sostanze in beneficenza. Ospite nel 2016 di una trasmissione televisiva britannica, Gates ha dichiarato che la quasi totalità del suo patrimonio, stimata allora in circa 70 miliardi di dollari, non andrà ai figli Jennifer, Rory e Phoebe, bensì all’onnipresente fondazione di famiglia. Per i rampolli, nelle intenzioni di Bill e Melinda, resterà quanto basta per un’educazione di prim’ordine in un costosissimo college, oltre a un tesoretto che consenta di iniziare senza troppe ansie una propria attività.
Una scelta che, secondo quanto riferito dallo stesso Gates, sarebbe stata accolta serenamente dagli stessi figli, sulla base dell’assunto che “questi soldi serviranno per aiutare i più poveri. [I ragazzi] lo sanno, ne sono orgogliosi e ci accompagnano nei viaggi per vedere quello che facciamo”. Del resto quella di Bill e Melinda è una scelta non così inusuale in ambito anglosassone, dove la normativa sull’eredità è meno stringente rispetto a quelle vigenti nell’Europa continentale: oltre al già citato Buffet, hanno annunciato di devolvere in beneficienza il loro patrimonio anche il socio Paul Allen (morto nel 2018) e Mark Zuckerberg (che assieme alla moglie ha creato una propria Chan Zuckerberg Initiative). Le ragioni sono varie, oltre a quelle umanitarie (e forse anche fiscali): anzitutto trasmettere ai figli l’etica del lavoro, liberandoli al tempo stesso dai confronti e da una responsabilità che potrebbe rivelarsi troppo grande.
“ Nel capitalismo anglosassone si valuta positivamente il fatto di sapersi ritirare al momento giusto: come Alain Prost e non come Valentino Rossi, per intendersi
Sta di fatto che a 64 anni Gates taglia il cordone con la sua azienda, a un’età in cui molti dei nostri industriali non pensano lontanamente di farsi da parte. Situazione che anche in questo caso affonda le radici in una diversa cultura d’impresa, caratterizzata in America da una maggiore presenza di capitale di rischio e da una più grande separazione e autonomia del management rispetto alla proprietà. Negli Stati Uniti molte grandi aziende – pensiamo solo a McDonald’s e a Coca Cola – nascono addirittura dal parricidio dei fondatori da parte di manager abili e senza scrupoli, e persino un genio come Steve Jobs nel 1985 fu praticamente messo alla porta da John Sculley, il Ceo che lui stesso aveva chiamato da Pepsi Cola. Al contrario da noi, causa anche il mancato sviluppo di un mercato borsistico adeguato alle esigenze delle nostre imprese, non è raro invece vedere il patriarca imperversare fino all’ultimo in azienda.
Non è un caso che sia proprio la successione al comando uno dei maggiori problemi per le nostre imprese: anche da quelle di dimensioni medie e grandi, come mostrano le vicende di Bernardo Caprotti con Esselunga e di Leonardo Del Vecchio con Luxottica, che per riprendere in mano le loro aziende si sono scontrati addirittura con il loro figli. Nel capitalismo anglosassone al contrario sembra essere valutato positivamente il fatto di sapersi ritirare al momento giusto, magari nel momento di massima gloria e senza pressioni: come Alain Prost e non come Valentino Rossi, per intendersi.
Resta la stranezza, agli occhi di noi europei continentali, di un sistema in cui i grandi miliardari pagano in proporzione meno tasse di una colf – come spesso sottolinea lo stesso Buffet – ma (o forse proprio per questo) si sentono comunque chiamati ad assumere direttamente un ruolo di fronte alla società, come i grandi filantropi e mecenati italiani del Rinascimento. Un po’ per una cultura dove individualismo e senso della comunità si mescolano e convivono in modo diverso rispetto ai nostri standard, un po’ forse per il senso di colpa rispetto a una società dalle profonde disuguaglianze, economiche e sociali. Un disagio che nemmeno l’etica calvinista per il lavoro e il denaro, tanto decantata da Max Weber in uno dei suoi scritti più celebri, è ancora riuscita definitivamente a spegnere.