Certe parole sono come i virus: un giorno non esistono, il giorno dopo sono in giro e non le controlli più. Certe parole, in particolare, sono come i virus delle zoonosi: un giorno si usano solo tra specialisti di un certo settore, il giorno dopo le usano tutti quanti. Una è “zoonosi”, appunto: chi di noi, prima di questo febbraio, l’aveva mai usata tanto spesso al di fuori dei laboratori di virologia o degli studi della sanità pubblica? E poi c’è la parola delle parole: “infodemia”. Da un paio di mesi a questa parte la usano tutti, appena si apre il dibattito. Vuol dire “attenzione, circolano troppe informazioni e si rischia di fare confusione”, e se la si usa, tipicamente, dando altre informazioni. Ma che parola è? Il suo percorso è stato il contrario di quello di “zoonosi” perché “infodemia” è nata su un giornale ed è stata poi adottata dagli specialisti: l’Oms l’ha usata in un suo rapporto ufficiale ai primi di febbraio e oggi la usano tutti. “È anche questo uno spillover!” spiega Vera Gheno, sociolinguista, scrittrice, specialista di comunicazione digitale, usando peraltro l’ennesima parola che i non-specialisti di virus hanno imparato in questi mesi. “È uno spillover perché è passata da un ambito a un altro, ed è successo nel momento in cui l’Oms l’ha ufficialmente adottata. Ma questo, anche nel tragitto da non specialistico a specialistico, non è un fenomeno così insolito”. Nel dettaglio: “infodemia” viene dall’inglese infodemic, che è composto da informazione più epidemia. A inventarla è stato il politologo e giornalista americano David J. Rothkopf per un articolo del Washington Post del 2003 da titolo When the Buzz Bites Back (che potremmo tradurre con “Quando il pettegolezzo ti si ritorce contro”). In quell’articolo Rothkopf parlava degli effetti dell’epidemia di Sars che era scoppiata in Cina un anno prima, effetti eccessivi (lo diceva a posteriori) rispetto alle conseguenze sanitarie reali della diffusione del virus. L’epidemia informativa, sosteneva, ha reso difficile controllare la salute pubblica e “paura, speculazione e rumors amplificati e accelerati in tutto il mondo dalle moderne tecnologie hanno influenzato le economie, le politiche e la sicurezza in modi sproporzionati rispetto alla realtà delle cose”. Quindi non solo troppe informazioni, ma troppe informazioni in un ecosistema informativo complicatissimo, fatto di interessi intrecciati e di interazioni e passaggi tra fonti primarie e secondarie. Fa tenerezza a rileggerlo oggi nei passaggi in cui indica tra le fonti secondarie i cercapersone e i fax. Ma è profetico nel suo attacco: “Sars è la storia non di un’epidemia, ma di due”. “Ecco – prosegue Gheno – la cosa davvero interessante è che l’Oms abbia ritenuto di dover dare l’allarme, più o meno nello stesso modo”. Sono passati diciassette anni, le cose dal punto di vista della canea informativa non sono che peggiorate: “per infodemia non si intende però la diffusione intenzionale di fake news. Si intende il cosiddetto ‘caos informativo’, l’abbondanza di informazioni inesatte o fuorvianti in quantità tale da non permettere più la distinzione tra fake e real”. Qui abbiamo un intero pianeta che si scambia informazioni a cicli rapidi, e che discute di un’epidemia molto più velocemente di quanto la scienza possa studiarla. E quindi finisce per dirsi cose non verificate, non verificabili, parzialmente vere, poco o per niente aggiornate, camuffate, mal interpretate, imbellettate o impiastricciate. Poi siccome la scienza è un sapere evolutivo “è anche difficile distinguere tra fake e real in assoluto, perché le cose sono sempre più sfumate di così. E il pubblico non ne ha contezza. Perciò l’Oms intendeva forse dire ‘seguite quello che dicono le fonti istituzionali’. Ma bisogna essere consapevoli che anche loro possono cambiare idea’”. La cura? Per Rothkopf “se l’informazione è la malattia la conoscenza è la cura”. La conoscenza della situazione sanitaria, intende, ma anche delle dinamiche di diffusione delle informazioni. Per Vera Gheno serve anche qualcosa che assomigli all’educazione: “non possiamo aspettare che qualcuno dall’alto ci risolva l’infodemia. Dobbiamo piuttosto farci cittadini critici, capaci di porci le domande giuste”. Comprese quelle sulle parole che stiamo usando.