SOCIETÀ

Coronavirus: Regioni in mezzo al guado

Tensione continua, guerre a colpi di decreti e ordinanze, provocazioni in tv e via social. Non si può dire che in queste settimane di Coronavirus la collaborazione tra Stato ed enti locali abbia funzionato sempre al meglio: l'emergenza ci ha mostrato un Paese visibilmente diviso, in cui spesso ognuno (comprese città e quartieri) ha dato l’impressione di voler prendere la propria strada in autonomia. Così, se ad esempio il presidente della Campania De Luca tenta di anticipare la chiusura dei locali per contrastare la ‘movida’, subito il sindaco di Napoli De Magistris reagisce permettendo sul territorio comunale l’apertura h24, con l’obiettivo di diluire le presenze e di favorire il distanziamento.

Non si tratta però soltanto di schermaglie e di rivendicazioni dei rispettivi spazi: a finire sul banco degli accusati in queste settimane sono state soprattutto le Regioni – prima fra tutte la Lombardia –, titolari secondo la Costituzione della competenza sulla sanità. Tanto che da più parti si auspica il ritorno di un maggior controllo da parte dello Stato centrale: è la fine del ‘federalismo all’italiana’, prima ancora che esso si esprima compiutamente? “Diciamo che siamo stati presi alla sprovvista in una fase di ridiscussione e di profonda debolezza del nostro assetto istituzionale”, risponde Patrizia Messina, docente di Governo locale all’università di Padova, presso la quale dirige anche il Centro Interdipartimentale di Studi Regionali (CISR) ‘Giorgio Lago’.

Proprio in questi giorni le 15 Regioni ordinarie compiono 50 anni: “È un momento interessante per iniziare a fare bilanci – continua la studiosa –, ma bisogna ricordare che le Regioni italiane a statuto ordinario sono partite negli anni Settanta sulla base di un’esigenza di decentramento amministrativo (grazie a una legge statale) e di autonomia politico-legislativa, centrata su un’idea di autonomia regionale del tutto simmetrica, uguale per tutte le regioni, a differenza delle cinque regioni a statuto speciale. Così è stato fino agli anni Novanta. Poi, con la seconda Repubblica, è arrivato il dibattito sul federalismo: per la verità più teorico che reale”. Un percorso che nel 2001 ha portato alla riforma del titolo V della Costituzione, con la quale è stata ridefinita la ripartizione delle competenze normative e amministrative tra Stato e Regioni, ma anche all’affossamento per via referendaria dei progetti di riforme costituzionali del 2006 (cosiddetta ‘devolution’ targata centrodestra) e del 2016 (progetto Renzi-Boschi, che tra le altre cose avrebbe dovuto sostituire il Senato con una Camera della Regioni).

Il Coronavirus è arrivato proprio in una fase decisiva di questa vicenda – spiega Messina –. Abbandonata la stagione federalista, si è intrapresa quella dell’autonomia regionale differenziata, ex art. 116 Cost. comma terzo. Nel 2017 Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna (proprio le regioni inizialmente più colpite dal Covid-19, ndr) hanno iniziato un negoziato con il governo per implementare forme di autonomia differenziata, firmando un primo accordo con il governo Gentiloni. In seguito, il percorso è continuato con la ministra degli Affari regionali Stefani (leghista e vicentina) del governo Conte I, che ha continuato i negoziati su basi differenziate, perseguendo una visione di autonomia asimmetrica. Successivamente, il ministro agli Affari regionali Boccia (del PD e pugliese) del Governo Conte II, ha teso invece a riportare le negoziazioni regionali nell’alveo di una legge quadro nazionale, di maggiore simmetria istituzionale, più vicina a una logica federalista. Al momento ovviamente è tutto congelato”.

Non c’è ancora una scelta chiara tra federalismo e autonomismo regionale, due approcci profondamente diversi

L’epidemia insomma ha messo a nudo un sistema non ancora assestato, che sembra fatto apposta per dare luogo a una continua conflittualità tra centro e periferia. E che sembra non aver ancora scelto un modello: “Non c’è ancora una scelta chiara tra federalismo e autonomismo regionale, due approcci che sono invece profondamente diversi. L’autonomismo, ad esempio, è sempre asimmetrico, differenziato e a geometria variabile (come nel caso spagnolo), parte da una mobilitazione dal basso ed è soggetto a possibili ridefinizioni; il federalismo al contrario è tradizionalmente simmetrico, con gli enti posti sullo stesso piano e con gli stessi poteri, e tutti compongono lo Stato nella sua interezza. Di solito c’è una camera territoriale, dove tutte le entità regionali sono rappresentate, inoltre c’è una ripartizione del potere stabile e garantita dalla Costituzione”.

Tornando all’emergenza Covid-19, le risposte si sono dimostrate molto diverse da Regione a Regione: se da una parte la Lombardia è andata incontro a molte critiche (e anche alle indagini della magistratura), dall’altra il Veneto è assurto a modello virtuoso, studiato anche al di fuori dell’Italia. Merito di una strategia basata sui controlli (in proporzione circa il doppio rispetto a Lombardia ed Emilia Romagna), a cui sono stati sottoposti fin dall’inizio anche gli asintomatici. “Il Veneto ha avuto la fortuna e l’intelligenza, nell’incertezza, di appoggiarsi al sapere esperto dell’università – è il commento di Patrizia Messina –. Bisogna però dire che il contenimento è stato efficace soprattutto perché la riforma Mantoan della sanità veneta non era ancora giunta a compimento. Questa infatti prevede l’accorpamento delle Ulss su basi provinciali e una tendenziale ospedalizzazione dei servizi, con una separazione di fatto della sanità, che segue una logica aziendale, dal sociale, che segue invece una logica territoriale di prossimità. Il modello dell’integrazione socio-sanitaria che ha contraddistinto il Veneto, ne risulta così fortemente compromesso. Buona parte della medicina territoriale, che coniuga sociale e sanitario e che si è rivelata decisiva, sopravvive dal modello precedente e, speriamo, torni ad essere valorizzata come merita, perché funziona decisamente meglio. Basti vedere il caso della Lombardia”.

Secondo la professoressa il Covid-19 ha infatti messo in luce quanto sia fondamentale la dimensione territoriale dei servizi, la quale però necessita di una grande collaborazione tra i diversi enti: “Basti pensare che la sanità è regionale mentre i Comuni hanno la competenza dei servizi sociali, come l’assistenza domiciliare agli anziani, mai tanto essenziale come in questa fase. Bisogna tornare a ragionare con una logica di rete intercomunale, di distretto socio-sanitario, perché i piccoli comuni non hanno le risorse per erogare servizi di qualità e, allo stesso tempo, potenziare la collaborazione con i distretti di protezione civile, anch’essi intercomunali. Se vogliamo vedere la crisi come opportunità, la lezione che possiamo cogliere è che abbiamo scoperto che nessuno si salva da solo e che, perciò, dobbiamo potenziare le reti inter-istituzionali”.

La questione insomma oggi è come favorire la collaborazione tra i diversi corpi ed enti che compongono la nostra società – compresi il terzo settore e i privati – per fronteggiare sfide che sempre più spesso superano i confini geografici e amministrativi del singolo Comune: “Delle reti intercomunali si parla sempre poco, eppure sono fondamentali per il nostro Paese. Dalle nostre recenti ricerche effettuate durante il lockdown su un territorio periferico come quello del Conselvano (Bassa Padovana) emerge, per esempio, che sono proprio le reti di sindaci ad aver attivato forme di sostegno alle famiglie, grazie alla collaborazione con la rete della Protezione civile e delle parrocchie, in una dimensione di sussidiarietà orizzontale che a livello locale è fondamentale. Le comunità locali in realtà si sono compattate e la Regione Veneto potrebbe approfittare del momento per un riordino territoriale delle competenze tramite forme di aggregazione intercomunale per aree omogenee distrettuali, su cui organizzare sia i servizi socio-sanitari di prossimità sia la rete della protezione civile. Se non si coglie adesso questa finestra di opportunità, si rischia di perdere una grande occasione”.

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