SOCIETÀ
Tra crisi economica, pandemia e scandali: il Perù vota il suo nuovo presidente
Il dibattito televisivo tra i candidati alle presidenziali. Foto: Reuters
Il Perù è un Paese in disordine. Tormentato da decenni di scandali, di arresti eccellenti, con un distacco dalla classe politica che si è ormai trasformato in aperto disprezzo, in disillusione. Da Fujimori in poi tutti i presidenti della Repubblica sono finiti in carcere, chi accusato di corruzione, chi di riciclaggio di denaro (uno, Alan García, si è sparato mentre gli notificavano l’ordine d’arresto, due anni fa). L’ultimo, Martin Vizcarra, molto popolare tra i peruviani, è stato destituito d’ufficio dal Parlamento lo scorso novembre per “incapacità morale”, perché sospettato di aver intascato tangenti, ed è ancora in attesa di un processo (i magistrati hanno respinto la richiesta di detenzione preventiva). Nel frattempo Vizcarra deve anche difendersi dall’accusa di aver ricevuto prima di altri il vaccino (cinese) contro il Covid-19, una “corsia preferenziale” fruita non soltanto dall’ex presidente (e dalla sua famiglia), ma anche da diversi funzionari governativi, tra i quali anche il ministro degli Esteri, Elizabeth Astete, che perciò si è dimessa. «Non è tollerabile che nel mezzo di una crisi simile la carica pubblica venga utilizzata per guadagno personale. È urgente indagare e punire i responsabili», ha dichiarato il presidente del Congresso peruviano, Mirtha Vasquez. Una polemica che divampa mentre la pandemia continua a colpire duramente il Paese, con i contagiati che hanno superato di slancio quota un milione e seicentomila, e un bilancio di oltre 53mila morti. L’economia sta crollando, con 11 punti di Pil persi soltanto nel 2020 e il “nuevo sol peruviano” in caduta libera.
Con queste premesse, e su questo terreno, si giocheranno domenica prossima, 11 aprile, le elezioni per eleggere il prossimo presidente della Repubblica. Elezioni “blindate”, per la pandemia e per timore di disordini: i seggi saranno presidiati da 93mila agenti di polizia, affiancati da oltre 60mila soldati di pattuglia. Un appuntamento drammaticamente importante per il Perù e altrettanto incerto, dal momento che tra i 18 contendenti ce ne sono pochissimi che, alla vigilia, sembrano in grado di raggiungere la doppia cifra. Dalla conta finale usciranno i due nomi più votati. Poi sarà il ballottaggio del 6 giugno a decretare il nome del prossimo Presidente.
L’indecente corruzione politica
La “fiducia” nella classe politica non è mai stata così bassa in Perù. «Quelli che corrono adesso non sono i salvatori della patria: sono quello che c’è. Siamo diventati il Paese del “male minore”», scrive Jaime Bedoya, editorialista de Il Comercio. «Duecento anni di vita repubblicana non sono bastati per vaccinare il funzionario pubblico peruviano contro l’indecenza». Martin Vizcarra è stato l’ultimo ad accendere gli entusiasmi (con punte di gradimento che sfioravano l’80%). Tanto che alla sua destituzione sono seguite violente proteste di piazza (per l’atto ritenuto illegittimo o per la delusione?) con un bilancio di due morti, centinaia di feriti e migliaia di arresti, in un crescendo di tensione che ha realmente rischiato di finire fuori controllo. Manuel Merino, prima scelta del Parlamento come guida del governo di transizione, aperto oppositore di Vizcarra e perciò principale bersaglio dei manifestanti, fu costretto a dimettersi pochi giorni dopo. Al suo posto venne nominato l’attuale “reggente”, Francisco Sagasti, leader del “Partido Morado”, l’unico ad aver votato contro la destituzione di Vizcarra.
Tre i temi centrali e urgentissimi di questa campagna elettorale: la “questione morale”, l’economia, la pandemia. Per fronteggiare il primo, il Congresso stesso ha votato a febbraio una riforma costituzionale che prevede l’abolizione dell’immunità parlamentare. Un deputato accusato di aver commesso “in flagrante” crimini comuni potrà dunque essere indagato dalla Procura e perseguito dalla Corte Suprema di Giustizia. Nessuna responsabilità penale è invece ammessa per le opinioni e i voti espressi dal parlamentare nell'esercizio delle sue funzioni. Ma i casi di corruzione sono frequentissimi in Perù, soprattutto tra i politici, e non soltanto per quel che riguarda il passato: 6 candidati alla futura presidenza, 2 alla vicepresidenza e almeno 134 aspiranti parlamentari hanno fascicoli aperti in Procura per presunti atti di corruzione, secondo un’indagine condotta dal Progetto Laboratori Giornalistici della “Fundación Gustavo Mohme Llona”. Tra i candidati presidenziali “sospettati” la più nota è Keiko Fujimori, leader di Fuerza Popular (FP), partito conservatore, nazionalista, di destra, e figlia dell’ex dittatore Alberto Fujimori, condannato a 25 anni di prigione nel 2009 per crimini contro l’umanità per aver autorizzato una serie di omicidi durante il suo mandato presidenziale (fuggito in Giappone, poi graziato nel 2017, ma la grazia è stata successivamente revocata). Keiko è coinvolta nello scandalo Odebrecht, la gigantesca rete di corruzione messa in piedi dalla più grande società edile dell’America Latina accusata di aver pagato per anni tangenti in 14 Stati per ottenere in cambio appalti per lavori pubblici. Il mese scorso il Procuratore peruviano José Domingo Pérez, al termine di un’indagine durata più di due anni, ha chiesto per Keiko Fujimori una condanna a 30 anni di carcere per aver intascato tangenti tra il 2011 e il 2016, per riciclaggio, ostruzione alla giustizia e false dichiarazioni. La candidata sostiene di essere vittima di “persecuzioni politiche”. In quello stesso scandalo erano rimasti coinvolti anche tre ex presidenti peruviani: Alejandro Toledo, Alan García (che si è poi suicidato) e Ollanta Humala. Oltre a Keiko Fujimori, hanno procedimenti giudiziari in corso lo stesso Ollanta Kumala (del Nationalist Party, socialista, d’ispirazione Chavista), Daniel Salaverry (We are Peru, Partido Democratico), Alberto Beingolea (Partido Popular Cristiano), Ciro Gálvez (leader di Runa, Renacimiento Unido Nacional, nazionalismo indigeno) e Rafael Santos (Perù Patria Segura, centrodestra), lui stesso promotore di una riforma giudiziaria per accorciare i tempi dei processi e affrontare con più efficacia i reati legati alla corruzione. Tutti innocenti fino a prova contraria, ci mancherebbe: ma non c’è porzione di Parlamento o schieramento politico che si salvi dal vento del sospetto, o dall’intervento della magistratura.
Verso il ballottaggio del 6 giugno
Gli ultimi sondaggi dicono che nessuno dei candidati è in grado di sperare in un successo al primo turno. O che, vista dall’altra parte, il gradimento degli elettori è come mai frammentato. In testa agli ultimi sondaggi c’è Yonhy Lescano, di Acción Popular (liberali riformisti), con appena il 12% di consensi: il suo manifesto politico è nel contrasto alla corruzione (ma lo dicono tutti, a parole è facile), nell’impegno per diminuire le disuguaglianze economiche nel Paese. Lescano ha anche espresso idee bizzarre nel contrasto alla pandemia: «Per curare il Covid-19 bisogna bere cañazo (acquavite di canna da zucchero) e sale». Dopo di lui, sostanzialmente appaiati a ridosso del 10%, l’economista liberale Hernando De Soto (Avanza Pais), ex consigliere economico del presidente Fujimori, e la giovane (40 anni) psicologa Verónika Mendoza (Juntos por el Perú, una coalizione di partiti di sinistra). Appena più indietro Keiko Fijimori (Fuerza Popular, che propone un mix tra democrazia e autoritarismo) l’ex portiere di calcio George Forsyth (Victoria Nacional, centrodestra) e Rafael Lopez Aliaga (Renovación Popular, destra). Da questa rosa dovrebbero uscire i due nomi che si sfideranno al ballottaggio del 6 giugno. Poi dipenderà dalle alleanze, dagli apparentamenti. «L’unica cosa certa è l’incertezza», scrive il politologo Fernando Tuesta Soldevilla, professore di Scienze Politiche alla Pontificia Universidad Catolica del Peru. «La pandemia ha lasciato uno Stato ferito e una cittadinanza enormemente frustrata, che rifiuta i politici e, quindi, poco interessata alle elezioni. A questo si aggiunge un'offerta di candidature, la più grande che si ricordi, di scarso appeal, che non suscita passioni, mostrando più debolezze che pregi».
Narcotraffico e disuguaglianza
Il disordine del Perù odierno, che proprio quest’anno festeggia il bicentenario della sua indipendenza, ha molte facce, che s’intrecciano con quella drammatica e incombente della pandemia (sono quattro i candidati alla presidenza risultati positivi al Covid: Pedro Castillo, Julio Guzmán, Ciro Gálvez, l’ultimo è George Forsyth), che ha condizionato la stessa campagna elettorale, giocata assai più sui social e sui media che non nelle piazze. C’è la profonda piaga della corruzione (il report annuale di Transparency International, che misura la percezione della corruzione, lo colloca al 94° posto, al pari del Brasile e dell’Etiopia). Ma c’è anche quella della disuguaglianza, che riguarda da vicinissimo l’intero Sudamerica: secondo il World Inequality Database (Wid), la piattaforma che calcola l’evoluzione storica della distribuzione mondiale del reddito e della ricchezza, il Perù ha uno degli indici più alti di tutta l’America Latina, dopo Cile, Messico e Brasile. Più della metà della ricchezza nazionale (53%) è nelle mani del 10% della popolazione. Il salario medio è di 930 sol al mese, pari a 215 euro (nell’area metropolitana di Lima, la capitale, sale a 1607 sol, pari a 370 euro). Poi c’è l’illecito, il sommerso. Il colossale affare del narcotraffico, le piantagioni di coca, lo sfruttamento illegale delle risorse naturali, la distruzione sistematica della foresta amazzonica (i narcotrafficanti, nella sola regione dell’Ucayali, hanno costruito in pochi mesi 46 piste clandestine per piccoli aerei utilizzati per il trasporto di cocaina), l’isolamento delle popolazioni indigene, le quotidiane violenze. In un anno sette indigeni sono stati uccisi per aver tentato di difendere quelle terre, di ostacolare quei traffici. Anche i Vescovi dell’Amazzonia peruviana hanno raccolto l’allarme: «Il recente assassinio di Estela Casanto, leader e fondatrice della comunità indigena di Shankivironi, nella regione di Junín, è la dimostrazione della mancanza di protezione nella quale si trovano queste persone», scrivono in una nota, puntando il dito contro l’inazione del governo peruviano. «Gli sforzi compiuti dallo Stato sono stati del tutto insufficienti per dare loro protezione e garantire la sicurezza giuridica dei loro territori». Il futuro Presidente del Perù dovrà (dovrebbe) affrontare anche questi argomenti, drammaticamente urgenti.