CULTURA

Sullo scaffale: Inverness, intervista a Monica Pareschi

Sono usciti di recente, in un tempo molto ristretto, davvero parecchi romanzi con la firma, nella traduzione, di Monica Pareschi. Da dopo l’estate sono ben cinque: Quando ormai era tardi di Claire Keegan, Christopher e quelli come lui di Isherwood, Una nuova vita di Tom Crewe, Elizabeth di Ken Greenhall e La roccia bianca di Anna Hope.

D’altronde Pareschi è un’eccellenza (ha vinto il Von Rezzori e il Premio Letteraria per la traduzione di Cime tempestose nel 2020 e, nel 2023, il Premio Fondazione Capalbio per la traduzione di Piccole cose da nulla di Claire Keegan). Ma – e non stupisce – è anche una talentuosa scrittrice e le rare, e perciò preziose, volte che posa la penna per seguire i suoi di pensieri ci mozza il fiato.

Da questa ondata di traduzioni, infatti, non si fa sommergere Inverness, una raccolta di racconti che Pareschi pubblica per Polidoro nella collana diretta da Orazio Labbate, in libreria da un mese. Un gioiello per lingua, immagini e pensieri che illuminano scorci di vite che “non sono la nostra” per parafrasare un celeberrimo titolo, ma che in realtà lo sono eccome.

L’angoscia di un bacio, una iniziazione crudele alla vita, l’incontro di una coppia al bar e poi ancora l’amore adultero, una cena di seduzione infelice, una storia di amicizia femminile, un viaggio. E, spesso, quasi sempre, oltre agli esseri umani, trasmettono significati i paesaggi, le cose inanimate, gli animali. La sofferenza che urla in situazioni composte.

Inverness è una destinazione, ma anche un immaginario sostantivo inglese, l’“invernitudine” che caratterizza lo sguardo crudo dell’autrice e il destino gramo di noi tutti, che però qui, anche se forse non nell’intenzione della scrittrice, sono smorzati dal periodare fluido e ricco che fa sì che di queste storie se ne vorrebbe leggere almeno una al giorno. Tutti i giorni.

L’abbiamo intervistata.

Non sei nuova alla scrittura di racconti. Traduci anche romanzoni da centinaia e centinaia di pagine e ti ritrovi, come scrittrice, nella misura breve. Come mai "ti si mozza il respiro" (così ti ho sentita dire)? E, più in generale, racconto versus romanzo: chi vince, se vince, e perché?

Non vince nessuno, o meglio vincono entrambi. Come traduttrice, l’ho detto più volte, ho una predilezione per i classici del periodo vittoriano, e lì giocoforza il fiato per la misura lunga, o anche lunghissima, lo devo trovare, e lo faccio con un godimento particolare. Stare in quella misura vuol dire entrare per molti mesi e in modo esclusivo in un mondo altro, fare un salto spazio-temporale che consente un’esperienza di sradicamento radicale anche in senso diacronico, e quindi un’esperienza traduttiva più estrema: è stare, per un po’, in un altrove più lontano rispetto alla letteratura contemporanea, e i mezzi per renderlo fruibile, quell’altrove, sono più complessi e arbitrari – tutto questo si risolve in un’autorialità traduttiva necessariamente più spregiudicata. Va anche detto che, banalmente, i miei committenti mi chiedono rarissimamente di tradurre racconti, e sì che lo farei volentieri. Ho tradotto anni fa i racconti di Kevin Barry per Adelphi, autore a cui tornerà l’anno prossimo, e mi ero trovata molto a mio agio. Come autrice ho una risposta altrettanto banale che poi è la stessa di scrittori di racconti che solo nominare dentro un’intervista che mi riguarda mi mette ansia: perlopiù nella vita faccio altro che scrivere cose mie, e i racconti sono più gestibili, non richiedono la metodicità di scrittura di un romanzo. La scrittura di un racconto può essere episodica, durare qualche giorno, o anche anni quando certi nodi non si risolvono, ma non richiede l’impegno costante ed esclusivo di un certo numero di ore al giorno. I racconti sopportano di essere abbandonati, anzi, a volte i mesi di “non scrittura” sono funzionali per capire dove si sta andando, per trovare l’elemento che fa tornare i conti. Il bello dei racconti – o perlomeno i miei funzionano così – è che si può partire senza sapere dove si sta andando, lo si scopre man mano; a volte, come dicevo, grazie a lunghe soste. Il racconto è un viaggio particolarmente avventuroso, che richiede la disponibilità dell’autore (e del lettore!) a lasciarsi sorprendere dall’esito, che a volte è del tutto imprevisto. Il racconto, per come la vedo io, si gioca tutto sull’effetto di mistero che producono i non detti, gli spazi bianchi, le lacune del testo. È quello che irrita i suoi detrattori e piace tanto ai suoi fautori. La mia mente di scrittrice funziona così: il racconto è un caos che in virtù della gabbia formale in cui è contenuto – e che è tanto più costrittiva rispetto a quella del romanzo – acquista senso. La scrittura è un’attività ordinatrice, crea nessi, porta senso dentro un caos apparentemente irriducibile. E dare senso al caos – perlomeno di tipo estetico – mi pare la funzione più evidente e forse anche più utile della scrittura.  

La scrittura è un’attività ordinatrice, crea nessi, porta senso dentro un caos apparentemente irriducibile Monica Pareschi

Inverness è un luogo geografico, che forse è pure un (tuo) luogo del cuore, ma “l'invernità”, o “l'invernitudine” che dir si voglia, è un moto dell'anima quando si fa contratta. Eppure questi tuoi racconti scivolano via in modo abbastanza luminoso tra oggetti domestici, cene, mani sopra e sotto il tavolo di un bar, fiori, desideri. E poi c'è la brusca virata, come a cambiare idea. In che senso, quindi, “Inverness”?

Questa cosa dell’invernità è un esempio di quello che dicevo sopra: io che Inverness contenesse il senso, la qualità dell’inverno sancita dal suffisso inglese che rende astratto il concreto, l’ho scoperta strada facendo. Inizialmente era solo un luogo in Scozia con un nome per me evocativo. Ma già l’incipit del racconto va in quella direzione metaforica che dici: l’inverno è uno stato dell’anima, o del cuore, o di qualcos’altro che sta al centro del personaggio. È ambivalente: è una contrazione ma è anche una protezione, come lo sono i dolori conosciuti, le gabbie gelate da cui non vogliamo uscire. Forse è la bellezza e il dolore della vita che chiude Fiori. Anche la bellezza ferisce, e anche il ghiaccio scalda.

Il traduttore deve avere per mestiere un lessico rigoglioso e precisissimo, saper trasformare immagini (offerte dalle parole altrui) in parole, e parole anche imprecise in altre parole definitissime. Che distanza c'è tra il tuo mestiere di traduttrice e quello scrittrice? Si aiutano a vicenda? Si contaminano? Si combattono? Ci sono scrittori che dicono che quando sono in fase creativa non leggono per non venire "contagiati" dalla scrittura altrui...

Per me la scrittura contiene sempre un moto traduttivo. Tutto nasce da una difficoltà a dire, a scrivere. Dove c’è difficoltà, straniamento, alterità, mistero c’è scrittura. Allora anche la lingua narrativa diventa una lingua straniera. In questo senso per me scrivere è un’attività vicinissima al tradurre. E d’altra parte vedo la traduzione come una delle forme della scrittura: come traduttrice non mi sono mai sentita una vestale della letteratura, non sono schiava della lettera, nel tempo mi sono andata formando un’etica traduttiva che prevede anche certi “tradimenti” a fin di bene. Idealmente, se scrivo preferisco non tradurre: la scrittura in prima persona ha bisogno di silenzio, di spazi vuoti che la lingua dell’altro riempie prepotentemente, con violenza: uno dei motivi per cui scrivo pochissimo, visto che tradurre per me è anche un lavoro alimentare. Ma probabilmente quella che tu senti come ricchezza lessicale e precisione linguistica viene molto da lì, dalla riflessione costante a cui è obbligato il traduttore, e che poi diventa un habitus mentale. Non sono una scrittrice che usa la lingua in maniera disinvolta, diciamo.

Per me la scrittura contiene sempre un moto traduttivo. Dove c’è difficoltà, straniamento, alterità, mistero c’è scrittura Monica Pareschi

Questi racconti dipingono un mondo e una generazione (o più d'una) che vanno però lasciando il posto a qualcosa di fortemente diverso. L'oggi è talmente mutevole da essere raccontabile con difficoltà, forse, e le nuove generazioni di scrittori ancora non si sono pienamente cimentate in merito. Ma sicuramente qualcuno ci ha provato e ci è riuscito. Penso a Sally Rooney, per esempio. Come scrittrice come ti poni, sotto questo aspetto? E come traduttrice hai incontrato voci nuove capaci di dirci qualcosa di veramente tagliato sul presente?

Io quando scrivo non mi pongo mai il problema di “dire qualcosa sul presente”. Se lo faccio, è segno che è un fatto inevitabile: vivo in questo tempo e chiaramente ne sono influenzata. Il testo ne sa sempre più del suo autore. L’unico racconto che offre delle coordinate temporali risonoscibili è Inverness. Ma il rapporto tra le due protagoniste potrebbe svolgersi in qualunque epoca, mi pare. Non conosco Sally Rooney, e ho il sospetto che non sia il mio genere di scrittrice: troppo generazionale, forse. O magari è un pregiudizio. Ho visto le serie su Netflix tratte dai suoi romanzi: le ho trovate carine, ma credo che come lettrice non mi appassionerei a situazioni così scarne, private di qualsiasi portata simbolica. Mi piace un po’ di dramma, quella Normal People temo mi annoierebbe a morte. Ma ripeto: sono piena di pregiudizi, e adesso che ne abbiamo parlato è praticamente certo che la prossima volta che andrò in libreria sfoglierò un libro di Sally Rooney. L’autrice irlandese di punta che traduco io, Claire Keegan, temo sia anche lei una che del presente se ne infischia abbastanza. Mi è capitato di recente di tradurre Emma Cline: ecco, in lei ho sentito un certo talento nel descrivere un grado zero dell’emotività che è un po’ il segno dei nostri tempi, mi pare. Se non l’avessi tradotta probabilmente non l’avrei mai letta, ma devo dire che è brava a fare quello che fa. Io comunque se devo scegliere preferisco tradurre Thomas Hardy. Scherzo, ma anche un po’ no.

C’è un racconto in Inverness a cui sei più legata emotivamente o professionalmente?

L’emotività va tenuta a bada, se fai lo scrittore. Però in gran segreto ti dirò che sono legata all’ultimo racconto perché contiene più cose di me rispetto agli altri. È un racconto meno costruito e meno ordinato, più immediato e lineare nella struttura. Infatti l’ho scritto non dico di getto ma certo in maniera letterariamente meno controllata. Ma questo lo sai già.

L’emotività va tenuta a bada, se fai lo scrittore Monica Pareschi

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