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Hammershøi, Riposo, 1905, Parigi, Musée d’Orsay©RMN-Grand Palais. Foto opera in mostra: Massimo Pistore
Per un attimo, osservando la donna seduta di spalle - capelli raccolti e nuca scoperta -, sembra di riuscire a "sentire" il silenzio: denso, profondo, antico. Accade anche ammirando la stanza illuminata solo da un taglio di luce: un divanetto elegante, due sedie vuote, il quadro appeso alla parete rimane nell'ombra. Il tempo rallenta, si sta nell’attesa, nessuno riempie lo spazio. C'è silenzio oltre la porta bianca, da dove spunta invece il profilo di una donna: resta leggermente nascosta e non si accorge di noi, o forse sceglie di ignorarci. Altre sedie, ancora vuote. Un’atmosfera poetica e sospesa.
Nell'opera di Vilhelm Hammershøi (Copenaghen, 1864 - 1916) il silenzio è al centro della scena: ambienti domestici, svuotati dalle voci, accolgono pochi oggetti e, talvolta, sfuggenti figure femminili, ritratte ora di spalle ora di profilo. La sua opera è definita dalla sottrazione, dalla ricerca dell’essenziale e da una costante incomunicabilità che emerge attraverso un gioco di presenze e assenze, sfumature e geometrie, luci, ombre e penombre, colori polverosi per opere mai accese e, al tempo stesso, mai monocrome. "Non si tratta di una incapacità di comunicare, ma di una consapevolezza più filosofica legata all’impossibilità di accedere a una intima comprensione dell’altro. Pensiamo al teatro scandinavo dell’epoca, a Ibsen o a Strindberg: il contesto aiuta a cogliere questo tema ricorrente nella pittura di Hammershøi”.
In Hammershøi e i pittori del silenzio tra il Nord Europa e l'Italia, prima retrospettiva italiana, curata da Paolo Bolpagni e allestita a Palazzo Roverella a Rovigo, lo spazio si fa matriosca contenendo, e in parte riproducendo, le atmosfere dell'artista stesso: già dalla prima sala, i pannelli riproducono le pareti di interni signorili e, subito, ci si sente immersi in una storia, traghettati nelle stanze dipinte dall'artista, domestiche ma sofisticate, che fanno pensare a certe scenografie teatrali e cinematografiche. A qualcuno saranno tornate in mente alcune scene di interni e, soprattutto, le figure femminili di film memorabili come Lezioni di piano o Jane Eyre, ma se queste considerazioni nascono da riferimenti e suggestioni personali, il legame con il cinema esiste davvero ed è dichiarato a partire dalle atmosfere di Ingmar Bergman e, ancora di più, nell'opera complessiva del regista danese Carl Theodor Dreyer (Copenaghen, 1889 - 1968) che inserisce chiare citazioni ai dipinti nelle sue inquadrature. In mostra sono proposti alcuni spezzoni del suo ultimo film Gertrud (1964), i cui protagonisti si muovono in un contesto domestico onirico e opprimente. "Hammershøi anticipa il cinema, o meglio, è il cinema successivo che guarda Hammershøi. Dreyer costruisce inquadrature che sono vere e proprie citazioni", commenta il curatore Paolo Bolpagni. Un omaggio al pittore che, negli anni Sessanta, resta in ombra, completamente dimenticato, "per essere riscoperto qualche tempo dopo, verso la fine del Novecento".
Intervista di Francesca Boccaletto, riprese e montaggio di Massimo Pistore
Ma chi è Vilhelm Hammershøi? Un predestinato, verrebbe da dire, considerando le felici e precoci esperienze con il disegno e la pittura già durante l'infanzia. La famiglia, borghese e benestante, ingaggia i migliori maestri riconoscendone le potenzialità (anche il fratello Svend diventerà pittore e ceramista). Dopo il primo approccio all'arte, nell'ottobre del 1879, Hammershoi si iscrive all'Accademia reale di Belle arti danese. In apertura della mostra è esposto Il nudo di ragazzo, un disegno a carboncino, probabilmente realizzato negli anni di studio con Peder Severin Kroyer, che ne rivela subito il talento.
Debutta nel 1885 e tre anni più tardi conosce il dentista Alfred Bramsen, che diventerà suo principale collezionista, amico, biografo e catalogatore. Durante un soggiorno estivo in compagnia dello storico dell'arte Karl Madsen a Lyngby, pochi chilometri a nord di Copenaghen, dipinge La porta bianca (Interno con vecchia stufa): è il suo primo interno privo di figure. Quando invece decide di riempire l’ambiente con una figura umana (senza eccedere, si limita a una presenza soltanto) e quando realizza un raro ritratto, non amando particolarmente quello frontale ma preferendo mostrare le figure di spalle o di profilo, Hammershøi sceglie sempre come modelle e modelli persone a lui care: la sorella, la madre, il fratello, la fidanzata e poi moglie Ida, gli amici, il figlio del mecenate Alfred Bramsen, Henry, violoncellista della cappella reale danese. La sua ritrattistica non convenzionale sembra essere un affare privato, e l’artista non ne fa mistero: “Non mi piacerebbe fare il ritrattista; non mi interessa che sconosciuti vengano a trovarmi e mi commissionino il loro ritratto. Per dipingerli, servirebbe che li conoscessi bene”.
Oggi Vilhelm Hammershøi è considerato il più grande pittore danese della propria epoca, un periodo che va dalla fine Ottocento all'inizio del Novecento, eppure in Italia una mostra ancora mancava, nonostante sia in atto, da anni, la sua riscoperta a livello internazionale, grazie a retrospettive realizzate a Parigi al Musée Jacquemart-André, a Tokyo al National Museum of Western Art, a New York alla Scandinavia House, a Londra alla Royal Academy, a Monaco di Baviera alla Kunsthalle der Hypo-Kulturstifung, a Toronto alla Art Gallery of Ontario, a Barcellona al Centre de Cultura Contemporània, a Cracovia al Muzeum Narodowe. Ora, a Palazzo Roverella, vengono esposte opere accuratamente selezionate (da una produzione comunque limitata) da Paolo Bolpagni, storico dell’arte, che spiega a Il Bo Live: "Nella storia dell'arte può capitare che anche i grandi artisti vengano per lungo tempo dimenticati: la pittura di Hammershøi non è categorizzabile, è vissuto nell'era del simbolismo, del post-impressionismo, delle avanguardie, ma non ha aderito a nessuna di queste tendenze. Si tratta di un artista singolo, difficilmente accostabile ad altri, e il fatto di non essere incasellabile può penalizzare. Fortunatamente, poi, la storia ne ha fatto riemergere l'effettivo valore: verso la fine del Novecento la sua pittura è tornata in auge e oggi è riconosciuto come uno dei massimi artisti della sua epoca".
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Vilhelm Hammershøi, Sunshine in the Drawing Room III. Strandgade 30, 1903. Stoccolma, Nationalmuseum
La retrospettiva dedica un focus anche al rapporto di Hammershøi con l’Italia. All'inizio di ottobre del 1902 Vilhelm e la moglie Ida partono per Roma. Restano in Italia per diversi mesi, fino al febbraio del 1903, visitano Napoli, i templi di Paestum e Salerno. In questo viaggio alla ricerca di ispirazione, mentre è a Roma, l’artista ammira il Pantheon, la Piramide Cestia, il Foro, l'Arco di Costantino, Castel Sant'Angelo. Nel suo unico dipinto di soggetto italiano, esposto ora a Palazzo Roverella, dipinge una veduta dell'interno di Santo Stefano Rotondo al Celio, osservando la chiesa da un insolito punto di vista, spostato a destra. Si riconosce il gusto per le atmosfere oniriche e rarefatte, ma la luce cambia rispetto agli interni: qui è calda e soffusa.
Ad arricchire il percorso espositivo una comparazione tematica e stilistica tra i dipinti di Hammershøi e quelli di artisti coevi scandinavi, francesi, belgi e olandesi, italiani. Ne parliamo in chiusura ma la scelta di favorire un dialogo ideale tra artisti attraversa tutta la mostra ed emerge in maniera esplicita sin dal titolo. Se in Italia a trarre ispirazione dai suoi interni sono Umberto Prencipe (Napoli, 1879 - Roma, 1962), Giuseppe Ar (Lucera, 1898 - Napoli, 1956) e Orazio Amato (Anticoli Corrado, 1884 - Roma, 1952), nella sua Danimarca c’è il compagno di studi e amico Carl Holse (Aarhus, 1863 - Asserbo, 1935). In area franco-belga l’ispirazione raggiunge il simbolista Henri-Eugène Le Sidaner (Port Louis, 1862 - Parigi, 1939), Xavier Mellery (Laken, 1845 - Bruxelles, 1921) e Charles Mertens (Anversa, 1865 - Calverley, 1919). Attraverso elaborazioni e approcci personali, vengono presentate poetiche legate ai temi del silenzio, dell’assenza, dell’attesa, dell’incomunicabilità espresse nei dipinti di interni vuoti, nelle città morte e nei paesaggi dell’anima.
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Vilhelm Hammershøi. "Riposo", 1905, Parigi, Musée d’Orsay ©RMN-Grand Palais / Martine Beck-Coppola/ Dist. Foto Scala, Firenze; "Luce del sole nel salotto III", 1900 circa, Stoccolma, Nationalmuseum ©Nationalmuseum / foto Cecilia Heisser
Hammershøi e i pittori del silenzio tra il Nord Europa e l’Italia
a cura di Paolo Bolpagni
21 febbraio - 29 giugno 2025
Palazzo Roverella, Rovigo