Dal 3 giugno è nuovamente possibile spostarsi da una regione all’altra. L’Italia ha varcato la soglia di una nuova fase di convivenza con un virus che ancora purtroppo non può dirsi debellato. Alla vigilia della ripresa degli spostamenti inter-regionali alcuni governatori avevano pensato però di munirsi di ulteriori precauzioni rispetto a quelle previste dal governo. Christian Solinas, presidente della regione Sardegna, aveva proposto l’istituzione di un certificato sanitario di negatività al Sars-CoV-2, non più vecchio di 7 giorni, come condizione necessaria all’ingresso nella sua regione.
La proposta è stata appoggiata, inizialmente, solo dal governatore dell’altra isola italiana, la Sicilia, mentre è stata apertamente osteggiata da più fronti. Il ministro degli affari regionali Francesco Boccia l’ha anche bollata come incostituzionale (per l’articolo 120 della Costituzione), in quanto impedisce la libera circolazione dei cittadini italiani in patria. Alle polemiche sono seguite anche alcune scuse, ma la questione è ampia e travalica i confini italiani. La ripresa economica passa per il turismo e per attirare la domanda molti Paesi nelle ultime settimane sembrano aver fatto a gara per offrire soggiorni sicuri, il più possibile CoVid-free.
Per buona parte del mese di maggio di passaporto sanitario hanno parlato la Grecia e la Croazia, che al turismo affidano una parte irrinunciabile della loro economia. Oggi la Croazia ha deciso di accogliere tutto il turismo europeo, chiedendo al confine solo la prenotazione dell’albergo, mentre la Grecia, che ha riaperto i confini a tutti Paesi europei, sembra non fidarsi ancora dei turisti italiani.
L’Austria, che pure ha scelto di non riaprire i confini italiani, per far saltare la quarantena obbligatoria di 14 giorni a chi a chi varca i confini nazionali ha chiesto un certificato sanitario o in alternativa la negatività al tampone da eseguire all’aeroporto di Vienna, al costo di 190 euro. Lo stesso test viene offerto gratuitamente dall’Islanda per i turisti in arrivo dall’area Schengen. Sempre l’Austria, con Norvegia, Danimarca, Australia e Singapore, nei giorni scorsi ha intavolato una discussione su quali regole condivise debbano sorreggere un possibile passaporto sanitario.
Come ormai sappiamo, il tampone fotografa l’istante in cui il paziente viene analizzato, pertanto il risultato, anche se negativo, non può essere in alcun modo garanzia di immunità permanente. Si è detto pertanto di guardare all’esito del test sierologico, che rileva la presenza di anticorpi nel sangue (le immunoglobuline di tipo G – IgG).
In Germania alcuni medici tedeschi, tra cui il virologo Hendrik Streeck dell’università di Bonn, hanno già parlato con una certa rilassatezza di immunità in presenza di anticorpi neutralizzanti. L'Estonia addirittura ha già iniziato a sperimentare una delle prime forme al mondo di passaporto di immunità digitale. Al di fuori del vecchio continente, il Cile intende rilasciare certificati medici con validità di tre mesi a chi è guarito dal CoVid-19. La Cina ha già introdotto sistemi di monitoraggio sanitari con codici QR digitali che potrebbero includere i dati sulla presenza di anticorpi.
In Estonia, a digital 'immunity passport' is tested, with caution https://t.co/3fo8xpF0P2 pic.twitter.com/S3Rtr6vQDr
— Reuters (@Reuters) May 22, 2020
A fine aprile l’Organizzazione mondiale della sanità aveva pubblicato un documento in cui veniva specificato che non esistevano evidenze sufficienti per considerare immuni i pazienti positivi agli anticorpi contro Sars-CoV-2.
Sul nostro giornale l’immunologa dell’università di Padova Antonella Viola aveva già spiegato come le attuali conoscenze sulla nostra risposta immunitaria al coronavirus (molto più complessa del previsto) siano ancora troppo limitate per poter asserire che la presenza di anticorpi neutralizzanti sia condizione sufficiente per parlare di immunità permanente.
Secondo la rivista Nature inoltre, “qualsiasi tipo di documentazione che limiti le libertà individuali sulla base di dati biologici rischia di diventare una piattaforma per restringere i diritti umani, aumentare la discriminazione e minacciare (invece che proteggere) la salute pubblica”. Per suffragare la propria tesi, Natalie Kofler, della Harvard Medical School e Françoise Baylis, della Dalhousie University in Canada, elencano 10 buone ragioni per ritenere la patente di immunità, o passaporto sanitario che dir si voglia, una cattiva idea.
1. Non si può parlare di immunità permanente
Sebbene studi recenti abbiano mostrato che buona parte dei pazienti che contraggono l’infezione producano anticorpi al virus, non è ancora chiaro quanto a lungo questi anticorpi possano proteggere l’organismo da una reinfezione. Se Sars-CoV-2 fosse simile ai coronavirus di Sars e Mers la protezione potrebbe durare uno o due anni. Se fosse simile al coronavirus del raffreddore il periodo di protezione sarebbe molto più breve.
2. I test sierologici non sono accurati individualmente
I test sierologici servono a stimare quanto è diffusa l’epidemia nella popolazione: sono dunque uno strumento epidemiologico efficace, ma non sono un buono strumento di diagnosi individuale. Molti dei test disponibili hanno una specificità e una sensibilità inferiore al 99%. Una bassa specificità può rilevare anticorpi che non sono quelli prodotti in reazione a Sars-CoV-2 e dunque restituisce falsi positivi, persone che risultano immuni secondo il test ma che in realtà non lo sono. Una bassa sensibilità invece comporta che se ci sono pochi anticorpi il test non li rileva, generando falsi negativi, ovvero persone che secondo il test non hanno anticorpi quando invece ce li hanno.
3. Occorrerebbero troppi test sierologici
Affinché il test sia valido occorre effettuarlo due volte. Ciò significa che per una popolazione di 84 milioni di abitanti come in Germania servirebbero almeno 168 milioni di test. Con un ritmo di 5 milioni di test mensili, la Germania sarebbe in grado di testare solo il 6% della popolazione in un mese. Alla fine di maggio gli Usa hanno eseguito test sul 3% della popolazione e la Corea del Sud sull’1,5%.
4. Troppi pochi individui verrebbero certificati
I tassi di guarigione da CoVid-19 variano ancora molto da Paese a Paese, dal 14% al 30%. Se si volesse introdurre veramente un passaporto di immunità, la limitata capacità di fare test e l’incertezza statistica a livello individuale farebbero sì che solo a una piccolissima parte della popolazione potrebbe venire effettivamente certificata. Questo non solo non sarebbe equo da un punto di vista giuridico e sociale, ma non servirebbe neanche a far ripartire i consumi e l’economia
5. Il monitoraggio è lesivo della privacy
La patente di immunità servirebbe a permettere la libera circolazione delle persone. Pertanto a qualunque certificazione sanitaria andrebbe associato un sistema di identificazione e monitoraggio. I documenti scritti sarebbero soggetti a falsificazione, quelli elettronici sarebbero più sicuri, ma introdurrebbero rischi di altro tipo, perché oltre ai dati sul CoVid-19 verrebbero rilevate altre informazioni sensibili. La Cina ha già annunciato che i sistemi di monitoraggio anti-CoVid-19 rimarranno attivi anche dopo la pandemia.
6. Le minoranze verrebbero controllate di più
Una maggiore raccolta dati porta a una maggiore profilazione, che spesso può incappare in discriminazioni di carattere razziale, religioso e sessuale. In Cina gli africani sono stati monitorati più delle altre minoranze, mentre in altri Paesi sono stati gli asiatici a venire discriminati. I rischi sarebbero anche maggiori se lo stato di immigrato venisse contato nel monitoraggio.
7. Accesso iniquo ai test
Con un numero di test non sufficiente per tutta la popolazione, alcune categorie vi avrebbero accesso privilegiato, mentre altre verrebbero lasciate da parte.
8. Stratificazione sociale
Classificare le persone in base al loro stato di salute genererebbe una nuova misura con cui distinguere gli immuno-privilegiati dai non immuno-privilegiati. Una simile etichetta sarebbe particolarmente preoccupante alla luce dell’indisponibilità di un vaccino per tutti. I datori di lavoro potrebbero voler evitare dipendenti che non hanno un’immunità certificata, generando seri squilibri sociali. O addirittura i cittadini provenienti da Paesi non in grado di attrezzarsi per un passaporto sanitario potrebbero vedere limitata la propria libertà di spostamento.
9. Nuove forme di discriminazione
Le piattaforme costruite per raccogliere i dati relativi a Sars-CoV-2 potrebbero venire estese ad altri tipi di dati sanitari, genetici o relativi a disturbi mentali. Occorrerebbe inoltre discutere in merito a chi dovrebbe avere accesso a questi dati.
10. Minaccia per la salute pubblica
I passaporti sanitari potrebbero introdurre un sistema di incentivi perversi. Se solo la certificazione dell’immunità a Sars-CoV-2 diventasse condizione per accedere a determinate libertà sociali, persone sane potrebbero spingersi a contrarre il virus per poi poter dimostrare di avere gli anticorpi.
Secondo gli autori dell’articolo pubblicato su Nature quindi considerare la presenza di anticorpi al virus come certificato di immunità è sbagliato sul piano sociale tanto quanto lo è sul piano scientifico. Invece di pensare come realizzare passaporti sanitari, concludono gli autori, i governi dovrebbero preoccuparsi di due cose. Primo: munirsi di tutte le risorse necessarie a far eseguire i test, tracciare i contatti dei positivi al virus e isolarli. Secondo: concentrare i propri sforzi nello sviluppo, nella produzione e nella distribuzione di un vaccino contro Sars-CoV-2. Solo l’accesso globale ed egualitario a un vaccino potrebbe essere la condizione per pensare a un certificato, non di immunità, ma di vaccinazione, per la partecipazione a determinate attività. Altrimenti, non verrebbero rispettati i criteri di giustizia sociale cui ogni politica dovrebbe tendere