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Durante la pandemia da Covid-19, la scuola è stata al centro di molti dibattiti. Le considerazioni di tipo sanitario, la necessità di adottare misure restrittive per contenere la diffusione di Sar-CoV-2, le conoscenze che via via si andavano acquisendo sulla suscettibilità dei più giovani al virus e sulla loro capacità di trasmissione, si sono intrecciate (e talvolta scontrate) con le esigenze della didattica. La scuola, sottolineava la neuropsichiatra infantile Michela Gatta in uno dei servizi dedicati all’argomento da Il Bo Live, rappresenta una dimensione fondamentale di vita per i ragazzi non solo per l’apprendimento, ma anche perché consente la socializzazione, il confronto tra pari, offre un riferimento di adulti significativi al di fuori della famiglia.
In questo contesto, la didattica a distanza – pur con tutte le difficoltà e i limiti del caso – ha cercato di garantire continuità formativa a studentesse e studenti soprattutto nel primo anno di pandemia e, proprio dalle necessità dettate dall’emergenza, l’impiego del digitale in ambito scolastico ha ricevuto particolare impulso (salvo poi subire una battuta d'arresto). Si tratta in realtà di un percorso che parte da lontano e che, accanto alle opportunità, pone anche questioni di cui serve tener conto, soprattutto nel passaggio agli odierni ambienti digitali di apprendimento. Ne abbiamo parlato con Alessio Fabiano, docente all’università degli studi della Basilicata e autore di due volumi sull’argomento, La scuola digitale. Questioni pedagogiche e didattiche e Didattica digitale e inclusione nella scuola dell’autonomia.
Il digitale a scuola: un risultato che parte da lontano
L’introduzione delle tecnologie in ambito scolastico ha radici lontane. I primi computer compaiono nelle scuole italiane negli anni Ottanta, nonostante ancora non siano per tutti, né per tutte le scuole. Nel 1985 il ministro della pubblica istruzione Franca Falcucci promuove il primo Piano nazionale informatica: “Il progetto PNI – scrivono Giulio Cesare Barozzi e Lucia Ciarrapico in un contributo di qualche anno fa sul Bollettino dell’Unione Matematica Italiana – nacque con l’intento di inserire in maniera sistematica l’informatica nel processo formativo dei giovani. L’introduzione era dettata sia dalla necessità di adeguare la formazione degli allievi ai mutamenti della società sia da quella, di natura più squisitamente culturale e metodologica, propria della scienza informatica, ritenuta idonea a favorire l’approccio alla complessità dei problemi presenti nel mondo attuale. Obiettivo fondamentale del progetto era l’ingresso dell’informatica a tutti i livelli di scuola, elementare, media e superiore, e trasversalmente, in tutte le discipline. Si voleva da un lato, infatti, introdurre gli alunni, in forma adeguata a seconda dell’età, ai concetti, linguaggi e metodi dell’informatica, dall’altra utilizzare gli strumenti informatici per rinnovare metodologicamente il processo di insegnamento-apprendimento”.
Il progetto, che può ritenersi concluso nel 1993, ha visto la formazione dei docenti di matematica e fisica degli istituti di istruzione secondaria superiore, mentre la formazione degli insegnanti di altre materie è avvenuta con il secondo Piano nazionale informatica nei primi anni Novanta. Nelle scuole elementari e medie l’informatica entrerà invece solo più recentemente.
Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni 2000 viene promosso il Programma di sviluppo delle tecnologie didattiche. “Le tecnologie didattiche – sottolinea Fabiano – vengono sempre maggiormente inserite nei curricula scolastici. Vengono fatti i primi investimenti da parte del ministero con il piano Scuola digitale, il piano sulle Lim (le lavagne interattive multimediali), il piano sulle Tic (le tecnologie di informazione e di comunicazione), con un’attenzione particolare alla formazione degli insegnanti. Negli anni 2000, dunque, si è passati da una fase sperimentale che toccava a macchia di leopardo le scuole, soprattutto gli istituti secondari, a un’introduzione sistematica delle tecnologie in ambito didattico. Il vero cambio di paradigma avviene tuttavia con la riforma sulla Buona scuola (Legge n. 107/2015), che ha definito in maniera organica e precisa un Piano nazionale della scuola digitale. Il Piano è a mio avviso fitto di indicazioni metodologiche, pedagogiche e strumentali per l’utilizzo sempre più pervasivo delle tecnologie in ambito scolastico”.
La creazione di ambienti digitali di apprendimento
Particolare impulso all’impiego delle tecnologie digitali in ambito scolastico è stato dato in questi anni dalle necessità dettate dalla pandemia. “Prima del 2020 – argomenta Fabiano – venivano usati prevalentemente gli schermi interattivi, le lavagne interattive multimediali (Lim), i tablet, dunque strumenti a supporto del processo didattico. La pandemia ha favorito, invece, la creazione di ambienti digitali di apprendimento. Tra i più usati c’è sicuramente G Suite for education”. Si tratta di una suite di strumenti e servizi creati appositamente per l’utilizzo in ambito scolastico: il pacchetto offre per esempio la possibilità di creare classi virtuali, di trasferire, condividere e conservare audio, video e documenti di testo attraverso un archivio digitale, di realizzare siti web, di predisporre test, verifiche e questionari. “Il pacchetto di Google ha avuto una maggiore diffusione nelle scuole, ma anche Microsoft ha riprodotto questo ambiente virtuale con Microsoft 365 Education. Queste sono state le due piattaforme più utilizzate, che danno la possibilità di intervenire in ambito didattico attraverso nuove strumentazioni. Ci sono poi programmi open source che vanno a interessare singoli interventi educativi da un punto di vista gestionale. Per favorire il pensiero computazionale e fare coding, per esempio, ci si può servire della piattaforma Scratch, disponibile gratuitamente”. Si tratta di un ambiente di programmazione sviluppato dal Massachusetts Institute of Technology e creato per aiutare ragazze e ragazzi ad avvicinarsi al coding.
In proposito, un’indagine di Altraeconomia fornisce alcuni dati: su quasi 7.700 scuole che hanno fornito elementi, l’86,3% hanno scelto G Suite for Education, il 18% Microsoft e il 6,2% Weschool. Il 14,7% ha scelto altre piattaforme in aggiunta alle precedenti o in alternativa. Tra i sistemi per videocall emerge la forte prevalenza di soluzioni come Whatsapp, Skype e Zoom a discapito di quelle con licenza open source come Jitsi o Moodle.
Educare alla cittadinanza digitale
“Le tecnologie digitali – osserva Fabiano – esercitano un impatto sull’istruzione, sulla formazione e sull’apprendimento mediante lo sviluppo di nuovi ambienti di apprendimento, più flessibili, adattati alle necessità di una società ad alto grado di mobilità e che si sviluppano all’interno di un quadro di riferimento europeo di competenza digitale”. Se ne parla nella Raccomandazione europea del 2006 e successivamente nella Raccomandazione europea del 2018; ebbene, nei 12 anni che intercorrono tra un testo e l’altro emerge già un diverso modo di concepire la competenza digitale: “Mentre inizialmente veniva considerata una competenza trasversale, progressivamente diventa una competenza di base, con la stessa importanza di materie come matematica, scienze, italiano, lingue, perché da essa non si può più prescindere”.
La Legge 92/2019, con cui viene reintrodotto l’insegnamento dell’educazione civica a scuola, dalla scuola dell’infanzia fino alla scuola secondaria di secondo grado, dedica l’intero articolo 5 al concetto di competenza digitale e cittadinanza digitale. “Educare alla cittadinanza digitale – sottolinea il docente – vuol dire formare studenti e studentesse in grado di analizzare, consultare, valutare criticamente le fonti dei dati che trovano online. Possedere competenze digitali significa saper interagire attraverso le nuove tecnologie, informarsi e partecipare al dibattito pubblico; fruire dei servizi digitali; conoscere le norme comportamentali da osservare nell’ambito dell’utilizzo delle tecnologie. Significa saper creare e gestire la propria identità digitale anche legata alla questione della reputazione; conoscere le politiche sulla tutela della riservatezza dei dati rispetto all’uso in ambito digitale; essere in grado di evitare i rischi per la propria salute e le minacce per il proprio benessere”.
Il digitale come nuovo paradigma educativo
La pandemia è stato un momento fondamentale di questo processo di innovazione scolastica, secondo Fabiano. “Dopo il primo anno di didattica a distanza, si è passati alla didattica digitale integrata, e ora con difficoltà si è tornati in presenza. La pandemia ha sicuramente accelerato i processi di utilizzo del digitale in ambito scolastico, salvo poi assistere a una battuta d’arresto, poiché gran parte degli istituti ha interrotto la consuetudine di utilizzare le piattaforme a supporto delle attività ordinarie. Ciò che mi auguro è che le scuole riprendano invece quelle buone pratiche, non perché siano tenute a farlo ma per una scelta di fondo. A mio avviso, infatti, il digitale rappresenta un nuovo paradigma educativo a cui sarebbe un peccato rinunciare, se concepito non come mero supporto alla didattica, ma come parte integrante del processo educativo”.
Secondo Fabiano il digitale è una modalità didattica innovativa e complementare che può integrare l’esperienza in presenza e quella a distanza, bilanciare attività sincrone e asincrone, prevedere vari monitoraggi per calibrare il processo di insegnamento e apprendimento. “Il digitale consente una didattica breve ma significativa, un apprendimento collaborativo; permette di capovolgere la metodologia tradizionale dell’insegnamento-apprendimento, adottando per esempio strategie come la flipped classroom. Si passa a una logica di metapprendimento, di metacognizione, di learnig by doing, e questo a mio avviso è il valore aggiunto delle tecnologie: l’insegnante non perde il ruolo centrale di guida, ma non è più colui che trasferisce conoscenza, quanto piuttosto un facilitatore che accompagna nel processo di apprendimento”. Le tecnologie digitali inoltre, secondo il docente, possono favorire anche la crescita di una scuola inclusiva.
Digitale e privacy
Se gli aspetti positivi non mancano dunque, non bisogna dimenticare d’altra parte le questioni inerenti la tutela della privacy e la sicurezza dei dati. Silvia Cegalin in un articolo su Guerre di Rete sottolinea, dati alla mano, che non sempre si tiene conto in modo stringente di questi aspetti.
“La pandemia – sostiene Fabiano – ha fatto avvertire in maniera più marcata il problema della privacy, della riservatezza negli ambienti digitali, del copyright”. Continua il docente: “La questione della privacy tuttavia è antecedente al periodo della pandemia, è una questione che la scuola ha dovuto regolamentare a partire dal 2018, anno in cui entra in vigore il nuovo Regolamento generale sulla protezione dei dati personali n. 2016/679, il cosiddetto GDPR (General Data Protection Regulation)”. Dovendosi adeguare alla normativa europea, le scuole si sono dotate di un data protection officer (Dpo), cioè di un responsabile della protezione dei dati con il compito di analizzare, regolamentare ed eventualmente sanzionare azioni non conformi alla direttiva europea. “Questa figura – conclude Fabiano – ha sostenuto le istituzioni scolastiche in questo processo di digitalizzazione invasiva della vita degli insegnanti, degli studenti, delle famiglie, delle scuole stesse. La privacy è stata minata in modo importante durante la pandemia, ma il sistema ha retto, in quanto regolamentato e normato anche attraverso l’istituzione di una figura che ha vigilato nel mondo della scuola”.