SOCIETÀ

Il diritto di essere salvati

Legge del mare, porto sicuro, convezione di Amburgo: concetti oggi usati comunemente nel discorso pubblico, ma con quanta precisione e consapevolezza? Non si tratta solo della vicenda della Sea Watch e della sua capitana Carola Rackete: in gioco ci sono valori fondamentali ma a volte contrapposti, come la difesa dei diritti umani e la sicurezza dei nostri confini. Una vicenda che si svolge anche sul filo del diritto, interno e internazionale: per questo ci rivolgiamo a Enrico Zamuner, docente di diritto internazionale presso l’università di Padova, che si è occupato sotto più aspetti dei temi oggi al centro dell’attenzione con articoli scientifici e monografie (tra cui La tutela delle navi private nel diritto internazionale, Editoriale Scientifica 2015).

Migranti e soccorso in mare: possiamo innanzitutto chiarire quali sono i diritti e quali gli obblighi delle parti in causa (persone, Stati, navi private)?

“Secondo una ben consolidata norma di diritto internazionale consuetudinario ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave – pubblica o privata – che batte la sua bandiera presti soccorso a chiunque, indipendentemente dalla sua nazionalità o dal suo status giuridico soggettivo, sia trovato in mare in condizione di pericolo. La norma è stata codificata, fra le altre, dalla convenzione di Montego Bay sul diritto del mare del 1982 (art. 98, par. 1). Inoltre, sempre in base alla convenzione di Montego Bay (art. 98, par. 2), alla convenzione di Londra del 1974 sulla salvaguardia della vita umana in mare (reg. 15, Capitolo XV) e alla convenzione di Amburgo del 1979 in materia di ricerca e salvataggio (Allegato 2.1.1), gli Stati parti devono costituire e rendere operativo un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso in mare per tutelare la sicurezza marittima”.

Nel dubbio l’unica soluzione fattibile nel Mediterraneo resta quella dello sbarco in uno Stato membro dell’Unione europea

Si è parlato molto ultimamente del concetto di ‘porto sicuro’ secondo la convenzione di Amburgo del 1979? È necessario anche il rispetto per i diritti umani? Tunisia, Libia e Malta possono essere considerati ‘porti sicuri’?

“La Convenzione di Amburgo del 1979 in materia di ricerca e salvataggio (SAR) non ne fornisce una definizione. La nozione si ricava dalle linee guida adottate dall’IMO (International Maritime Organization) nel 2004 sul trattamento delle persone soccorse in mare, a cui tutti gli Stati parti devono attenersi. Per ‘porto sicuro’ si deve intendere il luogo in cui le operazioni di soccorso possono ritenersi concluse; dove la vita delle persone soccorse non è più in pericolo e i bisogni essenziali (come cibo e medicine) possono essere soddisfatti. Nel caso di asilanti e rifugiati è fatto obbligo agli Stati di considerare quale porto sicuro un luogo in cui dette persone non siano suscettibili di vedere compromessa la loro vita e libertà personale e sia assicurato il rispetto dei diritti umani fondamentali. L’identificazione di un porto sicuro ai fin dello sbarco dipende quindi da circostanze che possono variare nel tempo. Libia, Tunisia e Malta non possono essere messi sullo stesso piano. Quanto alla Libia, allo stato è difficile ritenerlo un porto sicuro. Non sono in grado di dire se la Tunisia lo sia, ma certamente sembra offrire garanzie maggiori di altri paesi del Nord Africa. Per Malta dovrebbe operare una presunzione favorevole, essendo uno Stato membro dell’Unione europea. Nel dubbio, tuttavia, deve operare un principio di precauzione e a me pare che l’unica soluzione fattibile nel Mediterraneo resti quella dello sbarco in uno Stato membro dell’Unione europea”.

È lecito dal punto di vista internazionale chiudere i porti?

“Non esiste attualmente alcuna norma internazionale di generale applicazione che vieti ad uno Stato di chiudere i suoi porti. I porti rientrano a pieno titolo nella sovranità territoriale dello Stato costiero e sono soggetti alla sua giurisdizione esclusiva. Viola una norma consuetudinaria lo Stato che rifiuti l’accesso ad una nave straniera se questa si trovi in situazione di distress, vale a dire in condizioni di pericolo per ragioni attinenti alla sua stessa navigabilità o a condizioni meteorologiche estremamente avverse. L’interesse che la regola mira a salvaguardare non è tuttavia solo quello di salvare la nave, il carico e le persone a bordo, ma più in generale la sicurezza marittima e l’ambiente marino (come ad esempio quando c’è possibilità di inquinamento in caso di naufragio)”.

Qualsiasi provvedimento legislativo o amministrativo deve essere conforme agli obblighi internazionali a tutela dei diritti dell’uomo. Un richiamo generico ai diritti umani non è tuttavia sufficiente

Quando si tratta di tutela dei diritti umani, quindi, le convenzioni internazionali prevalgono sulle leggi nazionali e sulle decisioni di politica interna?

“Si tratta di una valutazione che deve essere compiuta avendo come parametro di riferimento l’ordinamento interno dello Stato in questione. Se si prende come esempio l’Italia, non vi è dubbio che qualsiasi provvedimento legislativo o amministrativo debba essere conforme agli obblighi internazionali tanto di natura consuetudinaria quanto pattizia a tutela dei diritti dell’uomo. Un richiamo generico ai diritti umani non è tuttavia sufficiente per far scattare un limite all’esercizio della potestà di governo dello Stato. È senz’altro contraria a un obbligo internazionale la decisione con cui si provveda al respingimento collettivo dei migranti in mare verso un porto non sicuro: la violazione in questo caso riguarda tanto il diritto internazionale (sia una norma consuetudinaria, sia l’art. 33 della convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati – c.d. principio di non-refoulement) quanto la nostra Costituzione (in primis gli articoli 10, primo comma, e 117). Meno pacifica – nel senso che essenziali divengono nuovamente le circostanze del caso concreto – è l’idea che lo Stato violi qualche norma di diritto internazionale a tutela dei diritti umani se rifiuta l’accesso in porto ad una nave privata straniera che abbia provveduto al soccorso di migranti in alto mare o, addirittura, nel mare territoriale di un diverso Stato”.

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