Il primo ministro indiano Narendra Modi accompagnato dal presidente ruandese Paul Kagame, 24 luglio 2018. Foto: REUTERS/Jean Bizimana
Il Ruanda è un piccolo stato africano, poco più di 11 milioni di abitanti su una superficie inferiore a un decimo di quella italiana. Alle nostre latitudini è conosciuto soprattutto per il tremendo genocidio consumato sotto gli occhi indifferenti del mondo nel 1994, ma negli ultimi anni sta guadagnando un’inaspettata centralità geopolitica.
A distanza di poche ore infatti il premier Paul Kagame ha ricevuto a Kigali Xi Jinping e Narendra Modi, i rappresentanti dei due paesi più popolosi al mondo, entrambi impegnati in Africa in un tour di avvicinamento al decimo vertice annuale dei Brics, il gruppo informale che oltre a Cina e India riunisce anche Brasile, Russia e Sudafrica, stavolta nella veste di padrone di casa.
Nelle visite in Ruanda non sono mancati i gesti simbolici: il premier indiano ad esempio ha portato in dono 200 vacche, aderendo al piano di Kagame per dotare ogni famiglia povera di una mucca da latte, secondo uno schema che tra il 2000 e il 2010 avrebbe ridotto addirittura di un quarto la povertà e la malnutrizione nel Paese africano. Qualcuno ha commentato che la “diplomazia delle vacche” (come è noto considerate sacre nel Subcontinente) è la risposta indiana alla “diplomazia dei Panda” cinese; sta di fatto che, al di là degli episodi folcloristici, la partita che si sta giocando è molto seria.
“ A distanza di poche ore il premier ruandese Paul Kagame ha ricevuto a Kigali Xi Jinping e Narendra Modi, i rappresentanti dei due paesi più popolosi al mondo
Nello stesso giorno infatti Modi e Kagame hanno firmato accordi economici per un valore di 200 milioni di dollari, a cui si aggiungono quelli per altri 300 milioni siglati il giorno prima da Xi: “Sono notizie che ormai non stupiscono – spiega Isabella Soi, docente e ricercatrice nell’ambito della storia e delle istituzioni africane presso l’università di Cagliari –, ormai c’è una lunga tradizione di rapporti molto stretti soprattutto tra Africa e Cina, in particolare con alcuni stati chiave come Ruanda, Uganda e Kenya, per quanto riguarda l’Africa orientale”.
“Se si considera la Cina è una tradizione che le alte sfere dello stato si rechino in Africa ogni anno – continua la studiosa –, normalmente nel primo viaggio dopo il capodanno cinese: gli stati africani furono infatti gli unici a mantenere normali relazioni diplomatiche con la Repubblica Popolare dopo i fatti di Piazza Tienanmen. Negli ultimi anni poi il Ruanda si è sempre più affermato nella regione dei grandi laghi come uno stato decisivo dal punto di vista diplomatico e politico, nonostante le ridotte dimensioni: ha molta influenza sul Congo e uno stretto legame con Uganda e Burundi. Senza dimenticare che il presidente Paul Kagame ha relazioni personali molto buone con diversi stati occidentali; anche perché, a differenza della maggioranza del suo Paese, è anglofono”.
Per quanto riguarda l’India invece, a quando risale l’interesse per l’Africa?
“Anche qui c’è una tradizione di rapporti che risale addirittura al periodo precoloniale, ma che si è rafforzata soprattutto in quello coloniale. I britannici infatti spinsero un gran numero di indiani ad emigrare soprattutto in Africa orientale, dove costituirono comunità forti, ad esempio in Kenya e Uganda. Un legame bruscamente interrotto quando il governo del dittatore Idi Amin Dada nel 1972 espulse dall’Uganda tutti gli asiatici, creando un vero e proprio terremoto politico nella regione. Successivamente dagli anni ‘90 le relazioni tra Africa e India sono state riallacciate e sono andante sempre più crescendo, soprattutto dai primi anni 2000, a livello diplomatico, commerciale e politico. Oggi inoltre l’india agisce anche per riconquistarsi un ruolo primo piano a livello internazionale, soprattutto in un momento in cui la Cina riemerge con un ruolo di leader continentale. Anche per questo sia Cina che India organizzano periodicamente delle conferenze assieme ai maggiori leader africani”.
“ Gli stati africani furono gli unici a mantenere normali relazioni diplomatiche con la Cina dopo di fatti di Piazza Tienanmen
È lecito parlare di neocolonialismo?
“Ovviamente anche Cina e India, come tutti gli altri Paesi, dall’Africa vogliono innanzitutto le risorse, e in alcuni casi appoggio diplomatico alle loro iniziative. La differenza è che nel periodo coloniale le materie prime venivano semplicemente portate via, mentre perlomeno adesso sono oggetto di scambi commerciali sulla base di accordi conclusi con gli stati africani, che almeno in teoria dovrebbero tutelare i loro interessi. Un altro elemento è il fatto che né Cina né India cercano in linea di principio di esportare il loro modello culturale. È vero che ad esempio la Cina sta aprendo in Africa molti Istituti Confucio, ma si tratta essenzialmente di insegnamento della lingua per scopi strumentali ai rapporti commerciali, mentre nel periodo coloniale le lingue occidentali erano esportate anche con l’obiettivo di ‘civilizzare’ l’Africa. È vero però che alcuni parlano di colonialismo, perché rimane nonostante tutto un sostanziale squilibrio di forze; ci sono stati forti, come appunto il Ruanda, che riescono a negoziare con le controparti straniere, e altri con problemi interni gravi, come ad esempio situazioni di conflitto e di guerra civile, che hanno meno potere contrattuale”.
Oltre ad importare risorse la Cina in Africa costruisce anche diverse infrastrutture.
“Si tratta di progetti economici importanti e a costi vantaggiosi, che fanno gola a governi africani. Poi comunque ci sono più virtuosi, che riescono a instaurare rapporti più paritari. Ad esempio il Botswana è uno di quei Paesi di cui non si parla ma che in realtà sta riuscendo a creare sorta di modello economico, perché riesce ad assicurare il rispetto delle leggi locali rispetto agli accordi commerciali internazionali: ad esempio imponendo il pagamento delle tasse ai governi stranieri o alle multinazionali. Si tratta di uno dei problemi maggiori nei rapporti dei paesi africani con il resto del mondo: molti accordi infatti sono esentasse, oppure prevedono che, oltre al prezzo di mercato del bene, si paghi solo una minima parte delle imposte. Del resto uno dei problemi storici di molti stati africani è proprio la difficoltà nel creare sistemi di tassazione efficienti, sia per le aziende straniere che per i propri cittadini, ed è al centro di molti tentativi di riforma negli ultimi anni. Senza una tassazione efficace è infatti impossibile costituire burocrazie efficienti e indipendenti da aiuti esterni, che riescano effettivamente a creare un legame profondo di fiducia tra cittadini e stato”.
Intanto l’Europa e gli Stati Uniti come stanno reagendo?
“I rapporti a livello commerciale, più che con le singole potenze postcoloniali, sono portati avanti con l’Unione Europea, che assieme alla Banca Mondiale rimane uno dei partner principali negli aiuti economici e nel finanziamento delle infrastrutture. Possiamo dire che c’è una sorta di legame speciale tra Africa ed Europa, percepita come la madrepatria di tutti i colonialismi, che però è a sua volta profondamente influenzato dai rapporti con gli Stati Uniti, almeno dalla fine della seconda guerra mondiale. Gli Usa, soprattutto dopo l’11 settembre, hanno attuato una politica che non guardava solo ai rapporti commerciali ma anche ad appoggiare la cosiddetta ‘guerra al terrore’; ultimamente inoltre ai loro occhi la Cina ha in qualche modo sostituito l’Urss come rivale, quindi gli americani stanno molto attenti a cercare di non perdere il terreno conquistato negli ultimi decenni. Quanto all’Ue, è riuscita a ritagliarsi un suo spazio, anche se il passato coloniale rimane comunque una sorta di macchia nei rapporti tra Africa ed Europa, che la rendono un attore di cui a volte gli africani non si fidano completamente. Giustamente, direi”.