È la mattina del 29 ottobre 1921 quando il pennacchio di un treno a vapore percorre il tratto di ferrovia tra Mestre e Padova. È partito il giorno prima da Aquileia con un carico molto particolare: in un vagone speciale, coperto dal moschetto e dal tricolore con lo stemma sabaudo, viaggia il Milite Ignoto. La destinazione è Roma, dove il feretro sarà tumulato al Vittoriano in una cerimonia al tempo stesso mesta e grandiosa; intanto il convoglio attraversa l’Italia in una via crucis nazionale e militare, trionfo della morte ma anche celebrazione della vita.
La risposta popolare è persino superiore alle attese. Al passaggio del convoglio le stazioni si gremiscono in silenzio di soldati, autorità, bandiere ma soprattutto tanti, tanti comuni cittadini e cittadine. Vanno a salutare il compagno che non ce l’ha fatta, a versare una lacrima sul figlio che non è tornato e non si sa nemmeno che fine abbia fatto. Il Milite Ignoto li impersona e li rappresenta tutti, tanto che il treno è costretto continuamente a fischiare e a rallentare: anche fuori dalle città infatti la gente si assiepa vicino ai binari e inginocchia al suo passaggio.
È la risposta finale e liberatoria, almeno nelle intenzioni, a una tragedia che in tutta Europa ha portato via almeno 10 milioni di soldati e che solo a distanza di quasi tre anni inizia a far intravvedere le sue vere dimensioni. “È allora che, come evidenzia lo storico Jay Winter nel fondamentale libro Il lutto e la memoria (Il Mulino 1998, rist. 2014), iniziano a porsi due problemi: da una parte spiegare il perché di questa enorme carneficina, dall’altra trovare una forma per elaborare il lutto collettivo”. A parlare è Marco Mondini, docente di storia contemporanea e di history of conflicts presso l’Università di Padova, che proprio sulla figura e il mito del Milite Ignoto ha curato un documentario che sarà trasmesso da Rai Storia il prossimo 4 novembre, al quale prenderanno parte tra gli altri anche Carlo Fumian ed Emilio Gentile.
Già Freud, spiega Mondini, aveva previsto che una nuova guerra avrebbe portato shock e sgomento in società che, come quelle europee all’inizio del secolo, avevano cominciato a rimuovere la morte dal proprio immaginario pubblico. “La risposta viene trovata in quella che un altro grande storico, George Mosse, definisce il ‘mito della vita militare’ – continua lo studioso –. Secondo questa visione, che rientra a pieno titolo nella propaganda culturale di guerra, è lo stesso soldato-eroe a offrire volontariamente la sua vita e il suo corpo per difendere la patria, in un’immagine in cui riecheggia chiaramente il concetto cristiano di sacrificio”.
Subito in maniera quasi spontanea l’Europa si riempie di cimiteri militari e di monumenti ai caduti, dalle semplici lapidi ai complessi più grandi e maestosi: mancano però ancora luoghi nazionali per il nuovo culto civile, che possano inoltre offrire un riferimento alle tante famiglie che non hanno un luogo dove piangere e onorare i propri cari. Nascono così, quasi simultaneamente soprattutto nei Paesi Alleati, i monumenti al Milite Ignoto. Di solito situati nelle capitali, essi fungono anche da centro i un culto dei morti rinnovato, che mischia i caratteri sacri a quelli civili e nazionali. “Si tratta di un’invenzione geniale, in origine essenzialmente europea, che risponde tra l’altro all’esigenza di mettere al centro delle liturgie pubbliche le masse e la gente comune – spiega Mondini –. Nelle vecchie celebrazioni e nelle parate militari risaltavano soprattutto le figure dei generali vittoriosi, mentre il Milite Ignoto rappresenta sia gli ufficiali che i soldati i semplici, i ricchi come i poveri. È di tutti ma non appartiene specificamente a nessuno”.
I primi monumenti di questo tipo vengono posti in Francia all’Hôtel des Invalides, già custode delle glorie napoleoniche, e a Londra, dove si opta per l’abbazia di Westminster. Per quanto invece riguarda l’Italia da principio si pensa al Pantheon, poi si sceglie il grandioso monumento a Vittorio Emanuele II, ancora non terminato e alla ricerca di un proprio ruolo nelle liturgie postunitarie, oltre che più ampio e potenzialmente adatto alle grandi manifestazioni. A quel punto parte la ricerca della salma, che deve presentare alcune caratteristiche precise: integra entro una certa misura, deve essere sicuramente italiana ma non identificabile, nemmeno per il grado o l’appartenenza a un reparto. Nella tarda estate del 1921 una commissione seleziona 11 salme provenienti da altrettanti campi di battaglia, che proprio nella mattinata del 28 ottobre vengono riunite nell’antica basilica di Aquileia. A compiere la scelta è la madre di un caduto non riconosciuto, Maria Maddalena Blasizza di Gradisca d'Isonzo: particolare che, tentando di rispettare una sensibilità specifica e in parte diversa rispetto agli altri Paesi, mette la famiglia e i suoi affetti al centro di un processo che si vuole pubblico e nazionale.
Sia l’idea che la messa in pratica funzionano alla perfezione: fin dall’inizio l’adesione della popolazione è massiccia e sentita. Il feretro arriva a Roma, dove viene esposto per due giorni nella basilica di Santa Maria degli Angeli, per poi essere portato all’altare della patria il 4 novembre, terzo anniversario della vittoria. All’evento partecipano centinaia di miglia di cittadini commossi, mentre da tutta Italia arriva una moltitudine di cartoline di condoglianze e di rammarico. Una dimostrazione di unità che per qualche giorno sembra mettere in sordina le tensioni interne di un Paese uscito a pezzi dalla guerra, e che da due anni è segnato da una guerra civile strisciante tra sinistre – veniamo dagli scioperi del ‘biennio rosso’ – e i reazionari, tra cui spicca il neonato partito fascista.
Ovviamente non tutti sono entusiasti: i socialisti italiani, fedeli alla loro linea antimilitarista, sono in grave imbarazzo, ma a risaltare sono soprattutto le assenze di D’Annunzio e di Mussolini. Il primo è a Gardone, a leccarsi le ferite dopo l’esperienza fiumana, il secondo a Milano: pur essendo stato l’araldo dell’interventismo e poi del reducismo il futuro duce non sopporterà mai di recitare la parte di comprimario. “Il Vittoriano e il Milite Ignoto non diventeranno icone esclusivamente fasciste – commenta Marco Mondini –. Anche per questo sopravviveranno alla caduta del regime e potranno svolgere un ruolo fondamentale anche nella Repubblicana nata dalla Resistenza”.
“La vicenda del Milite Ignoto è senza dubbio di un successo per l’Italia liberale – conclude lo storico –; in essa élites e popolo riescono finalmente a riunirsi, ad autorappresentarsi e in qualche modo a contemplarsi. Arriva però troppo tardi, in un Paese ormai profondamente diviso e sfibrato dai conflitti interni. Meno di un anno dopo ci sarà la marcia su Roma”. Ancora oggi questo sconosciuto fante è offerto ai visitatori, sempre meno come simbolo di valore militare e sempre più come ammonimento contro la violenza della guerra. Comunque un patrimonio della memoria collettiva italiana: tassello importante per la costruzione di un apparato iconografico nazionale, ma anche omaggio al silenzioso anonimato del cittadino comune, senza il quale anche lo Stato apparentemente più forte è destinato a cadere.