Il test sul Mose eseguito alla bocca di porto di Malamocco, a tre settimane dalla grande acqua alta del 12 novembre, ha dato risposte positive. Intanto però, bene che vada, l’opera non sarà pronta prima del 2021, quando saranno passati ben 18 anni dall’inaugurazione dei lavori. Anni funestanti da proteste, ripetuti stop e inchieste giudiziarie. Un copione già visto in molte altre opere pubbliche. Inefficienza e corruzione sono un destino per tutti i grandi cantieri italiani? Ne parliamo con Maria Stella Righettini, docente presso l’università di Padova ed esperta di valutazione delle politiche pubbliche.
“Il Mose è un’opera di una complessità e di una difficoltà di esecuzione molto elevate, per cui era oggettivamente difficile prevedere i tempi di esecuzione – spiega Righettini –. Detto questo il problema principale è se dopo tutto questo tempo l’opera sarà ancora adeguata. In particolare al cambiamento climatico, di cui a livello scientifico si parla da diversi decenni, in Italia perlomeno dall’alluvione del 1966”.
Come mai in Italia le opere pubbliche sembrano sempre andare a rilento?
“È una grossa e purtroppo annosa questione: le procedure sono complesse e i controlli spesso carenti, soprattutto in fase di esecuzione dei lavori. C’è poi il problema dell’efficacia e della funzionalità dell’opera, aspetti a volte trascurati rispetto all’attenzione data alla dimensione legislativa e a quella finanziaria. Non ci si pone adeguatamente il problema della funzionalità delle opere, della tempistica e della qualità, così come del loro funzionamento una volta completate, che invece sono gli aspetti più importanti: spesso ad esempio i costi di manutenzione non sono inclusi nell’appalto”.
“ Il cosiddetto Whistleblowing da noi fatica ad affermarsi, mentre in molti Paesi è fondamentale per contrastare la corruzione.
Come mai?
“Diciamo che rispetto ad altri il nostro Paese è molto in ritardo nell’affermazione di una cultura valutativa, ex ante e soprattutto ex post, che sia basata su evidenze scientifiche e tecniche adeguate a livello di efficacia e di impatto. Spesso le decisioni e i finanziamenti non mancano: il problema decisivo è specialmente nella fase di implementazione”.
Come migliorare?
“Monitorando meglio la fase dell’esecuzione e della manutenzione, sia sotto l’aspetto della qualità che dei tempi. Un discorso che riguarda il Mose ma anche le scuole, i ponti, le strade, qualunque tipo di infrastruttura. In fondo anche la pubblica amministrazione e la scuola sono infrastrutture, anch’esse hanno una dimensione materiale che non va sottovalutata e che fa parte della qualità. La cultura della valutazione si costruisce con molta formazione e adottando un approccio multidisciplinare, che non può essere solamente giuridico o tecnico. Bisogna poi porre maggiore attenzione ad alcune criticità: ad esempio la corsa al ribasso nelle gare di appalto spesso si ripercuote sulla qualità dei materiali impiegati”.
La storia del Mose è stata anche funestata dalla corruzione. Come fare per combatterla efficacemente?
“La corruzione c’è sempre stata ed è dappertutto, è un problema che tutti i Paesi affrontano da sempre con strumenti più o meno adeguati o differenziati, su cui però c’è anche un’esperienza consolidata in tema di strumenti e di procedure. Ad esempio da noi la segnalazione è ancora scarsamente utilizzata: il cosiddetto Whistleblowing è stato da poco introdotto nel nostro sistema ma fatica ad affermarsi, mentre in molti Paesi è un meccanismo fondamentale per contrastare la corruzione. Da noi viene ancora definito una forma di ‘delazione’”.
“ Infrastrutture: il problema fondamentale non è la taglia ma capire a quali problemi rispondono
A proposito di infrastrutture si parla spesso anche di sindrome Nimby.
“Si tratta della manifestazione di conflitti in cui le ragioni possono essere fondate oppure, in alcuni casi, manipolate da una cattiva informazione o comunicazione. Ci sono molti modi gestirli, a partire dal dialogo e dal coinvolgimento delle comunità locali nei processi decisionali, come ci ha insegnato il politologo Luigi Bobbio, recentemente scomparso. In alcuni casi, ad esempio, possono essere utili delle tecniche di compensazione, mentre in altri casi vanno cercati strumenti più adeguati. Anche da questo punto di vista un contributo decisivo può essere dato dalla valutazione, che così può diventare anche uno strumento partecipativo”.
Le “grandi opere” sono davvero utili”? Non è meglio investire in interventi più piccoli, oppure nella manutenzione e nella gestione del territorio?
“Anche qui è molto difficile generalizzare. Una ‘grande opera’ come l’alta velocità sicuramente ha avuto e avrà un enorme impatto in senso positivo sul nostro sistema di mobilità. Del resto anche le piccole opere possono portare negatività e corruzione; il problema fondamentale non è la taglia ma capire a quali problemi rispondono. La distinzione va fatta tra interventi che costituiscono o meno opportunità di sviluppo e soprattutto di migliorare la sostenibilità: questo fa la vera differenza”.