Giorgio Morandi, "Natura Morta" (particolare), 1921 olio su tela. Collezione Giorgio Pulazza
Ancora una bella mostra a Padova. C’è da perdere quasi il conto tra tutte le occasioni che la città sta dando a residenti e visitatori di rifarsi letteralmente gli occhi: solo per l’arte contemporanea in questo momento si possono ricordare le esposizioni presso Palazzo Zuckermann, Galleria Cavour (Furore. Da oriente a occidente) e Palazzo del Monte di Pietà (Incontro e abbraccio nella scultura del Novecento). Si potrebbe quasi parlare di rischio di inflazione, di sovraccarico dei sensi, se non si trattasse di altrettante occasioni di qualità, per allestimento e pezzi in mostra.
Un quadro – è il caso di dirlo! – da cui emerge prepotentemente ’900 Italiano. Un secolo di arte, aperta dal 1° febbraio al 10 maggio ai Musei Civici agli Eremitani e organizzata dall’assessorato alla cultura del Comune di Padova in collaborazione con C.O.R. - Creare Organizzare Realizzare. Le curatici Maria Teresa Benedetti e Francesca Villanti hanno allestito un percorso che racconta il Novecento italiano attraverso un percorso di 92 opere dei più grandi artisti: da Giacomo Balla a Lucio Fontana, passando per Giorgio De Chirico, Filippo De Pisis, Giorgio Morandi, Carlo Carrà, Felice Casorati, Gino Severini, Mario Sironi, e poi ancora Renato Guttuso, Giuseppe Capogrossi, Emilio Isgrò, Mario Merz…
Camminando per le sale si ha la sensazione di sfogliare un libro di storia dell’arte, tale è l’impressione che all’appello non manchi davvero nessuno. Tante le opere da gallerie e da collezioni private, alcune delle quali esposte per la prima volta al pubblico, tutte spesso molto più che interessanti: è il caso di Forme uniche della continuità dello spazio di Umberto Boccioni, scultura tra le più iconiche del Novecento, o della splendida Natura morta del 1921 di Giorgio Morandi, presa a simbolo della mostra, oppure ancora dei due dipinti di De Chirico (La partenza del cavaliere del 1923 e i gladiatori del 1929) e della magnetica Giovane donna di Antonio Donghi (1927).
La mostra rende giustizia della visione, in parte ancora diffusa, di un’Italia tutto sommato marginale rispetto alle grandi correnti dell’arte novecentesca. Un’idea contestata da Maria Teresa Benedetti, che nella parte del percorso che ha curato – quella sulla prima metà del secolo – mette in evidenza i legami tra gli autori italiani e i grandi movimenti internazionali: a cominciare da Giacomo Balla, che tornato da Parigi diffonde le idee e le sensibilità incontrate nella Ville Lumière tra i giovani della sua cerchia romana: Boccioni, Severini e Sironi. Da lì si innesca il processo che porterà al futurismo, movimento che si segnalerà tra i più creativi e influenti anche a livello internazionale.
Con il dopoguerra si consuma il passaggio all’astrattismo, visivamente rappresentato dalla compresenza sulla stessa parete di tre opere di epoche diverse di Giuseppe Capogrossi, che rappresentano il suo personale percorso di evoluzione: “Non ho cambiato la mia pittura – ebbe un giorno a dire l’artista – l’ho solo chiarita”. Non possono mancare ‘l’arrogante povertà’ dei materiali scelti da Alberto Burri (presente con un Sacco su legno del 1953) e i tagli di Lucio Fontana (Concetto spaziale, Attese, 1967), che danno conto della costante ricerca, da parte degli artisti italiani, del modo di coniugare la sperimentazione con l’attaccamento alle origini e alla tradizione. “Non tutti sanno che per le sue opere anche Fontana diceva di pensare anche a Padova, a Giotto e a Donatello”, ha detto durante la presentazione della mostra Andrea Colasio, assessore alla cultura del Comune di Padova.
Proprio Padova è presente nella mostra con una sala dedicata al “Gruppo Enne”, il cui nucleo originario si forma nel 1959 e comprende artisti come Alberto Biasi, Ennio Chiggio, Toni Costa, Edoardo Landi e Manfredo Massironi. Un collettivo il cui lavoro si intreccia a quello di altre formazioni italiane ed europee, come gli artisti francesi di Motus (futuro Groupe de Recherche d'Art Visuel) e i milanesi Enrico Castellani e Piero Manzoni della Galleria Azimut, con cui ricercano “una nuova concezione artistica”. Poi, alla fine degli anni ’70, la Transavanguardia grida al “libera tutti” e l’artista torna a parlare in prima persona: superato il contrasto tra astratto e figurativo, il cerchio si richiude.
La mostra aperta agli Eremitani restituisce, nella sua parzialità, un quadro ossimoricamente completo di quella che è stata l’Italia nel ‘900: l’occasione per rivedere, studiare e approfondire anche da un punto di vista visuale e concettuale le radici dell’epoca in cui viviamo.