La vicenda biografica e intellettuale di Rosi Braidotti riflette il suo nomadismo: nata in Italia (a Latisana, nel 1954) è emigrata in Australia da adolescente, ha conseguito un dottorato in filosofia alla Sorbona di Parigi e poi ha insegnato Women’s Studies presso l’Università di Utrecht (Paesi Bassi) fino al 2022. Pioniera degli studi di genere in Europa, Braidotti è una figura di spicco nel panorama culturale internazionale, la sua teoria dei Soggetti nomadi. Corpo e differenza sessuale (Castelvecchi, 2023) è un punto di riferimento essenziale del pensiero femminista. Le sue opere, fra cui i tre volumi dedicati a Il postumano (DeriveApprodi, 2025), esplorano temi come la nostra seconda vita negli universi digitali, le tecnologie riproduttive o gli sviluppi dell’intelligenza artificiale, ovvero quella che la filosofa chiama la “convergenza postumana” dell’antropocene.
Abbiamo incontrato Braidotti a Bologna alla presentazione del suo ultimo libro, Il ricordo di un sogno. Una storia di radici e confini (Rizzoli, 2024) che ricostruisce le vicende della sua famiglia e a cui ha lavorato per circa 40 anni; a partire da quest’ultimo lavoro, che è anche il primo scritto direttamente in italiano, le abbiamo fatto qualche domanda.
Il confine orientale italiano ha avuto un ruolo fondamentale nella storia della sua famiglia e ancora oggi è allo stesso tempo meta e barriera per chi percorre la cosiddetta rotta balcanica: cosa pensa delle politiche “identitarie” che sembrano avere molta presa in Europa e non solo?
“Tutta la mia opera filosofica esprime la stessa critica delle identità fisse e unitarie, nella tradizione del pensiero critico post-strutturalista. Questo libro di memorie di famiglia rientra pienamente nello stesso modo di pensare. Ma i soggetti nomadi non sono solo mobili o fluidi – sono anche capaci di appartenenze molteplici e complesse, e spesso perfino contraddittorie. Quindi in questo ultimo libro (come nei precedenti) le identità sono nomadiche e i confini significano le radici che ci si porta appresso quando si va via. Ma al contempo essi indicano anche la continuità di appartenenze che non sono solo legate al suolo e allo spazio, ma all’affettività e alla durata. Fanno parte della memoria collettiva.
Inoltre, nel dibattito pubblico attuale i confini – e quello orientale in particolare – sono collegati alla rotta balcanica e quindi alla migrazione. Un tema completamente corrotto dal clima avvelenato e dal “cattivismo” sostenuti dalla destra al potere. Quello che ci servirebbe invece sarebbe una migliore comprensione del carattere sistemico della migrazione, della sua importanza per la nostra cultura e la nostra economia. E servirebbe un progetto strutturato anche a livello europeo per accogliere degnamente le persone migranti. Altro che centri di detenzione in Albania: milioni di euro sprecati! Dobbiamo ripensare i confini e la trans-nazionalità, invece di cedere alle sirene maligne che ci invitano ad abbracciare l’odio per i migranti e l’ultra-nazionalismo prepotente e autoritario. Ormai siamo circondati da nazionalismi anche su scala regionale, provinciale e paesana: tutti contro tutti.
E il paradosso è che i problemi che dobbiamo affrontare – penso alle nuove tecnologie, al cambiamento climatico, alla crescita delle diseguaglianze – richiedono soluzioni planetarie. Non ci servono frontiere chiuse, ma menti aperte. Questa è la dimensione che andrebbe rivista e valorizzata”.
“ Dobbiamo ripensare i confini e la trans-nazionalità, invece di cedere alle sirene maligne che ci invitano ad abbracciare l’odio per i migranti e l’ultra-nazionalismo prepotente e autoritario
Rosi Braidotti (foto di Patrick Post)
Restando sul concetto di radici, scrive pagine molto toccanti sull’idea di famiglia come cura reciproca, come un continuo cercarsi, al di là dei legami di sangue: questa concezione di famiglia che potremmo definire queer è postmoderna o è sempre esistita?
“Marx e Engels ce l’hanno spiegato con estrema chiarezza: la famiglia come modello dominante serve a strutturare le relazioni inter-generazionali in modo da assicurare la trasmissione della proprietà e dei poteri. Si tratta di un modello che rispecchia e protegge gli interessi delle classi agiate. E la sua configurazione dominante accentua i legami di sangue e il potere assoluto del patriarca maschio che è stato il proprietario della moglie e dei figli, almeno fino alla rivoluzione femminista degli anni ’70 del secolo scorso. Ma visto che ora sappiamo che nell’Italia di oggi una donna su 5 non ha accesso a un conto in banca e una su 3 non ne possiede uno solo suo, credo che nel nostro Paese ci sia ancora molto da fare per ristrutturare la vecchia struttura famigliare.
Ma nelle classi più popolari e povere (descritte anche in testi letterari o film come Novecento di Bernardo Bertolucci) vige una struttura famigliare più estesa e flessibile. Ci sono tanti bambini la cui filiazione non rientra affatto nella norma, ma che trovano comunque la loro collocazione in un ordine famigliare che non difende interessi finanziari o calcoli fiscali, ma si prende cura della sua gente.
Il momento queer che viviamo oggi è una critica feroce della famiglia nucleare e io lo inserirei saldamento nella contemporaneità, poiché si fonda non solo sull’amarsi e accudirsi, ma anche su una grande libertà sessuale e diversità amorosa – cosa che non esisteva su vasta scala in altri momenti storici.
Quindi io rivendico l’originalità della diversità delle famiglie arcobaleno di oggi, ma metterei anche in rilievo dei precedenti sovversivi storici, semplicemente per sfatare il mito della naturalità del dogma Dio-Patria-Famiglia, che i governi di destra stanno ripristinando. Non esiste nessuna famiglia “naturale” – e non è mai esistita – non confondiamo il capitalismo con l’ordine naturale!”
“ Credo che nel nostro Paese ci sia ancora molto da fare per ristrutturare la vecchia struttura famigliare
Nel libro parla degli stupri usati come “arma di guerra” (in particolare quelli avvenuti dopo Caporetto nel 1917-18 o perpetrati dai Cosacchi nel 1944-45): sono una categoria particolare di crimini, legata a situazioni estreme, o hanno la stessa radice della violenza agita purtroppo quasi ogni giorno sui corpi delle donne?
“La questione dell’aumento impressionante della violenza contro le donne e le persone LBGTQ+ merita tutta la nostra attenzione. Il vecchio e logoro patriarcato italiano, in questa fase di perdita di prestigio e potere, scarica tutte le sue frustrazione sui corpi delle donne. Solo un essere nobile d’animo e un uomo femminista eccezionale come Gino Cecchettin riesce a staccarsi dall’orda malefica dei guardiani del patriarcato.
Purtroppo però la questione degli stupri di guerra rileva una logica ancora più complessa. La ricerca che ho compiuto per il libro sulla mia famiglia mi ha convinta che gli stupri come arma di guerra espandono la violenza patriarcale entro uno scenario strategico dominato da protocolli e regole. Lo so che sembra insensato, ma esistono protocolli precisi su come, dove e chi stuprare. Questi orrori variano da una campagna militare a un’altra, anche se spesso ripetono le stesse atrocità con un’intollerabile crudeltà. Nel libro io analizzo gli stupri dell’Armata Rossa alla fine della seconda guerra mondiale, ma quel protocollo di violenze belliche nel frattempo è cambiato e si è inserito in scenari ancora più elaborati, contrassegnati da una forte mediazione tecnologica. Quindi chi volesse studiare seriamente il fenomeno, dovrebbe armarsi di un enorme coraggio per fare una mappatura dettagliata delle continuità e delle innovazioni subite dallo stupro come arma di guerra, come strategia pianificata.
Mi si spezza il cuore solo a nominare queste cose, e forse questo dolore spiega perché è così difficile analizzare pienamente il fenomeno. Serve un lavoro di squadra, con uomini, personale militare e specialisti bellici: è un lavoro urgente”.
“ So che sembra insensato, ma esistono protocolli precisi su come, dove e chi stuprare: questi orrori variano da una campagna militare a un’altra, anche se spesso ripetono le stesse atrocità con intollerabile crudeltà
Chiudiamo con il suo archivio fatto di lettere, telegrammi, cartoline, fotografie, audiocassette, email… in pratica è un catalogo che ripercorre la storia delle nostre tecnologie comunicative: ma oggi che tutto è smaterializzato, non rischiamo di perdere la memoria?
“Girerei questa domanda a tutte le generazioni post-Internet, dalla generazione X in giù: cosa intendete fare dei vostri archivi di messaggini, post, sms e TikTok? E se siete contenti di lasciarli sparire, come intendete lasciare traccia del vostro agire, del vostro sentire, dei tempi e modi con cui vi muovete nel mondo?
Il paradosso delle nuove tecnologie è che da una parte incoraggiano un continuo narrarsi e mettersi in mostra, ma dall’altra cancellano tutte le tracce che contano. O meglio: le lasciano registrate nella trama algoritmica che non tutti sanno leggere o decifrare. In questo modo vi immergono in un presente continuo che lascia poco spazio all’idea dell’avvenire – e di che cosa resterà di tutto ciò che stiamo vivendo.
Inoltre, tante tecnologie della comunicazione odierne sono centrate sul sé individuale, con assai poco interesse nel confronto con chi ci circonda. Io non le trovo tanto relazionali, ma molto egocentriche – e quindi non mi è chiaro che tipo di archivio generazionale possono disegnare, visto che ogni archivio è una rete relazionale che contiene gli scambi e gli affetti di tutta una generazione. Vi inviterei a riflettere seriamente alla dimensione temporale dei vostri scambi: scrivete anche per il futuro!”