SOCIETÀ
Pensioni dei giornalisti: la cassa previdenziale torna sotto il controllo dello Stato
Foto: Contrasto
I giornalisti di solito amano parlare di se stessi. Anche se sarebbe contrario all’abc della professione, il pronome “io” si sente spesso, soprattutto da parte di coloro che frequentano con assiduità i talk show. Colpisce dunque il riserbo di chi fa informazione su una faccenda che li riguarda assai, ed è quella delle pensioni e dell’istituto previdenziale dei giornalisti (Inpgi), per il quale la legge di bilancio prevede la confluenza nell’Inps. Tanto più in un momento nel quale il dibattito sulle pensioni imperversa su tutti i media, con frequente pubblicazione di articoli che indicano la strada dei tagli e dei sacrifici per rendere sostenibili i sistemi pensionistici. Sarà perché quel che succede a una categoria ristretta e spesso additata come casta non viene reputato di grande interesse dai più. Eppure, ci sono diversi motivi per i quali la vicenda delle pensioni dei giornalisti è interessante e in qualche modo emblematica; a partire dal fatto che, come sottolineato da Tito Boeri e Roberto Perotti, con la legge di bilancio i contribuenti italiani tutti vengono chiamati a partecipare al salvataggio dell’ente che gestisce le pensioni dei giornalisti.
La legge di bilancio per il 2022, all’articolo 28, introduce “norme a garanzia delle prestazioni previdenziali in favore dei giornalisti”. Quest’articolo prevede il passaggio all’Inps – l’istituto pensionistico pubblico – della “funzione previdenziale svolta dall’Inpgi in regime di sostitutività delle corrispondenti forme di previdenza obbligatoria”. Di fatto, l’Inpgi viene ri-pubblicizzato. L’Inpgi, nato nel lontano 1926, è stato un istituto di diritto pubblico fino al 1995; in quell’anno, nel pieno del passaggio della riforma delle pensioni, l’istituto fu privatizzato. Va chiarito che questo non vuol dire che i giornalisti avevano un sistema del tutto privato per le pensioni, come una sorta di assicurazione: l’Inpgi infatti fu trasformato in una fondazione di diritto privato incaricata di svolgere un ruolo pubblico, poiché si tratta comunque di previdenza obbligatoria, ma gestita autonomamente dalla categoria. Che ha continuato a godere di regole proprie. All’epoca, quasi tutta la categoria era per la “privatizzazione”, vista come un modo per mantenere la propria autonomia e salvare un ente in attivo dalla confluenza nel cosiddetto “calderone” dell’Inps. E infatti i giornalisti hanno goduto, anche nei tempi in cui si stringevano via via i cordoni della borsa e i requisiti per andare in pensione, di regole proprie più favorevoli: la riforma Dini non si è applicata ai giornalisti fino al 2017, solo da allora è stato fatto il passaggio al sistema contributivo in luogo del retributivo (vale a dire: fino ad allora le pensioni dei gornalisti sono state interamente calcolate sulla base delle ultime retribuzioni, di solito molto più alte della media dei lavoratori dipendenti). Ma in questi decenni le condizioni finanziarie dell’istituto si sono via via deteriorate, in particolare per la gestione detta “Inpgi 1”, ossia quella che riguarda i giornalisti dipendenti; finché lo squilibrio dell’Inpgi 1 si è trasformato in dissesto, si è discusso e litigato su varie ipotesi per rimediare fino alla decisione del governo, accettata dalla categoria, di ri-pubblicizzare Inpgi 1, lasciando fuori solo la gestione dei freelance (la cosiddetta Inpgi 2). Il nuovo sistema scatterà dal primo luglio 2022, con garanzia di mantenimento delle attuale regole e condizioni a coloro che sono già in pensione e a quelli in procinto di andarci – tra i quali molti protagonisti di una raffica di prepensionamenti che in questi mesi nelle aziende si stanno contrattando.
La ragione di base è macro-economica
Si potrebbe essere tentati di applicare il vecchio adagio sulla privatizzazione dei profitti e la pubblicizzazione delle perdite: quando le cose vanno bene, privato è bello; quando si mettono male, si ricorre a papà-Stato. Ma il punto non è solo questo. La domanda principale è: quando si può dire che le cose vanno bene, in tema di pensioni? Negli anni ’90, quando l’industria dei media era ancora in salute, i giornalisti italiani erano numerosi, quasi tutti dipendenti e con stipendi alti. Con la crisi dei giornali, e la precarizzazione del lavoro giornalistico, sempre meno i contributi dei lavoratori attivi potevano finanziare i generosi assegni per i pensionati. Secondo i dati Inpgi, l’occupazione giornalistica dipendente si è ridotta del 14% tra il 2012 e il 2019. Negli stessi anni l’occupazione precaria cresceva del 20,8%, con retribuzioni enormemente più basse (lo stipendio annuale medio è a 59.000 euro per i dipendenti, 11.000 per i precari iscritti alla gestione separata). Era prevedibile? Qualcuno lo aveva detto, portando ad esempio quel che già negli anni ’90 stava succedendo per i dirigenti pubblici, che anch’essi avevano una loro cassa autonoma che poi è stata assorbita dall’Inps per evitarne il fallimento. Nell’uno e nell’altro caso, possono esserci stati errori di gestione, anche malversazioni, ma la ragione di base è macro-economica: una cassa legata a una certa professione funziona finché la professione cresce o almeno rimane stabile, se il mercato volge al peggio, i suoi conti affondano – a meno di non ricorrere a drastici tagli sui trattamenti, anche quelli in corso; o a vessatori aumenti dei contributi, difficili in una fase in cui già è difficile trovare aziende che assumono giornalisti. Per questo una gestione unitaria di tutto il sistema pensionistico pubblico è preferibile, ripartendo il rischio degli alti e bassi del mercato tra tutte le professioni e categorie.
Un sistema con gravi fonti di iniquità e inefficienze
Proprio come l’Inps, l’Inpgi eroga anche trattamenti assistenziali, per far fronte alla disoccupazione e alle crisi. Nel caso della crisi generalizzata e profonda dell’industria editoriale italiana, lo ha fatto con un massiccio ricorso ai prepensionamenti, con generazioni di professionisti andati in pensione assai prima di raggiungere i requisiti minimi. Mentre si discute di quali lavori usuranti escludere dalla fine di quota 100, i giornalisti – che fanno un lavoro importante e bellissimo ma difficilmente definibile usurante come quello in fonderia – sono andati e vanno in pensione anche a 62 anni con 25 di contributi. Anche qui, si può attaccare la casta, e accusare quelli che scrivono editoriali contro gli operai che vogliano andare in pensione anticipata mentre loro stessi ne godono; ma è più utile allargare lo sguardo, e vedere che lo strumento del prepensionamento, in questo come in tanti altri casi, è stato usato come un surrettizio aiuto pubblico alle imprese in crisi. La difesa di categoria si è saldata con gli interessi aziendali di breve periodo, delle imprese che si sono liberate di personale maturo e ben pagato per sostituirlo con giovani precari e mal pagati. Che nel frattempo dovevano versare i loro contributi a Inpgi 2, gestione separata in attivo: la “cassa” dei poveri freelance, con paghe bassissime e previsione di poverissime pensioni, si è trovata a finanziare il dissesto di quella dei dipendenti, e dunque anche i colleghi precoci e benestanti pensionati.
Da tutto ciò emerge un sistema con gravi fonti di iniquità e inefficienze. La prima riguarda la solidarietà collettiva: è giusto mettere a carico di tutti il mantenimento di un regime speciale, privilegiato, di una categoria? La seconda riguarda il mercato duale del lavoro giornalistico: mentre le risorse pubbliche si mobilitano per salvare Inpgi 1, che succederà a autonomi, free lance, precari, collaboratori? Come al solito, su quest’angolo della questione i riflettori sono ancora più fiochi. La terza riguarda la salute dei media e della libertà di informazione: alla radice dei guai dell’Inpgi, c’è la pretesa corporativa di una categoria di “salvarsi da sola”, ma in parallelo la gravissima crisi economica nella quale versano i mezzi di informazione in tutto il mondo. È una crisi industriale, non (solo) previdenziale. In un passaggio epocale, segnato da una rivoluzione tecnologica che ha terremotato il modello di business dell’informazione, un intervento pubblico è giustificato, ma dovrebbe aiutare la nascita del nuovo e dei nuovi entranti, non limitarsi a proteggere gli uscenti.