SCIENZA E RICERCA

Premio Galileo 2023. “Su un altro pianeta” di Amedeo Balbi tra i cinque finalisti

Quante volte abbiamo rivolto lo sguardo al cielo domandandoci se da qualche parte, oltre quel blu, esistano altri mondi come il nostro e se riusciremo mai a visitarli? La conquista dello spazio, sogno fantascientifico per eccellenza, culmina con il desiderio di costruire strade, case e città su altri pianeti e di espandere il dominio umano altrove nell’universo. Proviamo però a tenere i piedi ben piantati per terra (almeno per il momento) e a domandarci: quanto possiamo considerarci realmente vicini alla realizzazione di questo sogno?

Amedeo Balbi, astrofisico all’università di Roma Tor Vergata e divulgatore scientifico, prova a rispondere a questo interrogativo in un libro dal titolo Su un altro pianeta (Rizzoli, 2022), aggiudicandosi un posto nella cinquina dei finalista dell’edizione 2023 del Premio Galileo. Ispirato dalle suggestioni fantascientifiche e dai tanti progetti di esplorazione interplanetaria più o meno verosimili proposti negli ultimi sessant’anni da società spaziali, ricercatori, imprenditori e visionari in generale, Balbi prova a capire con quali limiti e opportunità dovremmo confrontarci se cercassimo davvero di trasferire baracca e burattini altrove nell’universo e quali sfide concrete attendono gli esploratori spaziali di oggi e gli aspiranti marziani di domani.

L’autore parte da una considerazione tanto dura da accettare quanto difficile da negare: le condizioni necessarie (e comunque non sufficienti) a garantire la nostra sopravvivenza sulla Terra sono innumerevoli; a partire dalla respirabilità dell’aria, alla composizione dell’atmosfera che mantiene stabile la temperatura del pianeta e ci protegge dalle radiazioni solari, fino alla presenza di acqua allo stato liquido, solo per citarne alcune.

Queste evidenze hanno dato vita a un dibattito tra coloro che sostengono la tesi della “terra rara” e ritengono che ci siano scarse possibilità che esista un altro pianeta in grado di garantire tutte le condizioni che sulla Terra consentono la vita e l’evoluzione di organismi complessi e intelligenti, e quelli che invece propugnano la tesi di Copernico, secondo la quale sarebbe improbabile il contrario, ovvero che il nostro pianeta sia unico nel suo genere. Resta di fatto che la vita così come la conosciamo l’abbiamo trovata (almeno finora) solo sulla Terra.

Tendiamo talvolta a dimenticarcene a causa della diffusa cultura antropocentrica, retaggio soprattutto dalla storia occidentale del pensiero umano, che ci ha indotti a credere che il nostro pianeta sia fatto apposta per noi. È bene ricordare, invece, che non è così: siamo noi ad essere fatti apposta per questo pianeta. Miliardi di anni di evoluzione e selezione naturale hanno reso gli esseri umani e le altre specie terrestri in grado di adattarsi all’ambiente terrestre.

La natura ci ha plasmati, è vero. Ma non dobbiamo dimenticare che anche noi le stiamo restituendo il favore. Il cambiamento climatico e, in generale, la grave crisi ambientale per la quale non possiamo incolpare altri che noi stessi stanno rendendo l’habitat terrestre sempre più ostile alla nostra sopravvivenza nel prossimo futuro, a meno che non invertiamo la rotta.

There’s not a planet B (“non esiste un pianeta B”) è diventato, negli ultimi anni, uno dei più popolari motti ambientalisti. Eppure, secondo alcuni visionari, abbandonare la nave che affonda ed emigrare in massa su un altro pianeta è una scelta molto più logica rispetto a quella di rimboccarsi le maniche e provare a salvare la Terra. Nel libro di Balbi traspare non poco scetticismo rispetto ai progetti avanzati dai sostenitori più accaniti di questa visione, nonché contemporanei protagonisti della space economy. Stiamo parlando, naturalmente, di Elon Musk e di Jeff Bezos; mentre il primo progetta di formare un insediamento umano autosufficiente su Marte, abitato da un milione di persone, il secondo spera di fondare diverse colonie all’interno del Sistema solare da utilizzare come succursali del pianeta Terra.

Più facile a dirsi che a farsi. La verità è che non possiamo neanche immaginare quali sfide, potenzialmente impossibili, dovremmo affrontare nel tentativo di fondare una colonia spaziale autosufficiente, a partire da quelle che riguardano l’abitabilità di un eventuale nuovo mondo. Nel caso di Marte, ad esempio, la migliore delle ipotesi prevede di sottoporre l’intero pianeta a un processo di “terraformazione”, che consiste nella trasformazione artificiale dell’habitat per renderlo più simile a quello terrestre. La domanda di Balbi sorge spontanea: anche se disponessimo delle risorse materiali ed economiche per farlo, non sarebbe forse più facile impiegare le nostre energie per salvare il pianeta su cui già abitiamo?

Inoltre, anche qualora riuscissimo a individuare un “pianeta B” o, come lo definisce Balbi, la Terra 2.0 che sogniamo – ossia dotata di tutte le caratteristiche necessarie a garantire la nostra sopravvivenza – questo non sarebbe che il primo passo. Tanto per dirne una, non è detto che raggiungere la nostra nuova casa sia un’impresa fattibile. Nel caso non ci aveste mai pensato, l’organizzazione di un viaggio interplanetario è un po’ più complicata rispetto a quella di una scampagnata di Ferragosto (sì, persino rispetto a quelle che richiedono di trovare un compromesso tra i desideri materialmente inconciliabili di tutti i vostri amici).  Anche se un giorno riuscissimo a girovagare nell’universo alla velocità della luce, di circa 300.000 km al secondo (obiettivo ancora al fuori dalla nostra portata, per la cronaca), sarebbero necessari 18 anni per raggiungere un pianeta che dista 18 anni luce (la distanza stimata come la più probabile tra il nostro e un eventuale altro pianeta abitabile della nostra galassia). Per non parlare di mondi ben più lontani, come, ad esempio, il pianeta Kepler-452b, soprannominato “il cugino della Terra”, che si trova addirittura a circa 1800 anni luce. Per questo motivo, per quanto dispiaccia deludere i fan di Futurama, esistono alcuni limiti strutturali della realtà che impediscono di spostarci in lungo e in largo nell’universo in tempi brevi e magari tornare a casa sulla Terra entro l’ora di pranzo.

Queste e altre considerazioni approfondite da Balbi ci consentono di riscoprire il vero scopo dell’astronomia e dell’esplorazione spaziale: indagare ciò che c’è fuori per scoprire qualcosa di più anche sul nostro pianeta. In questo caso, dovremmo ricordarci che la Terra non è solo una rampa di lancio per la colonizzazione di altri corpi celesti, bensì un mondo raro e prezioso che non ci appartiene, ma a cui apparteniamo. In questo senso, Su un altro pianeta è un appassionante viaggio nell’universo che, alla fine, ci riporta a casa.

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Premio Galileo 2023

La cinquina dei finalisti

“Su un altro pianeta” di Amedeo Balbi vince il Premio Galileo 2023

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