La sede della Corte di cassazione a Roma. Foto di Sergio D’Afflitto (CC-BY-SA-3.0)
Riforma della giustizia e riduzione dei tempi dei processi: stavolta si dovrebbe fare sul serio. L’impegno è scritto nero su bianco nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), nel quale al primo posto tra le riforme da mettere in cantiere figurano proprio quelle riguardanti la Pubblica amministrazione e la Giustizia. Senza questi provvedimenti, si sottintende, è a rischio la stessa erogazione dei fondi del Next Generation EU (noto anche come Recovery Fund): gli oltre 200 miliardi su cui si punta per rilanciare il Paese.
Ancora una volta insomma ce lo chiede l’Europa. Da anni: già prima della pandemia la Commissione Europea, pur dando atto dei progressi compiuti negli ultimi tempi, invitava l’Italia ad aumentare l’efficienza del sistema giudiziario, a velocizzare i procedimenti di esecuzione forzata e a combattere la corruzione. Eppure il condizionale rimane d’obbligo, visto che si parla di problemi che si trascinano da decenni.
“Da parecchi anni l'Italia viene condannata dalla Corte europea proprio per la lentezza dei processi civili – chiarisce Beatrice Zuffi, docente di diritto processuale civile presso l’università di Padova –. Tra le cause di questa situazione c'è sicuramente un elemento culturale: siamo una società estremamente litigiosa, in cui almeno l’11% dei cittadini maggiorenni racconta di aver avuto almeno un contenzioso davanti alle aule giudiziarie. Poi però ci sono anche un problema endemico di organizzazione del sistema giudiziario, che nel tempo ha accumulato una mole ingente di arretrati, e un problema di risorse e di organico”.
Intervista di Daniele Mont D'Arpizio; montaggio di Elisa Speronello
I numeri sono impietosi: secondo i dati contenuti nell’ultima relazione annuale del primo presidente della Corte di cassazione la durata del giudizio è in media di 348 giorni per il primo grado, a cui aggiungerne 627 per il secondo e oltre 860 giorni per il terzo. Stime già alte ma che secondo le ultime rilevazioni della Commissione europea per l’efficacia della giustizia (CEPEJ) andrebbero riviste addirittura al rialzo: 527 giorni per il primo grado, 863 per il secondo e addirittura 1.265 giorni per il terzo, per una durata media dell’intero giudizio superiore a sette anni. Una situazione che, sottolinea il PNRR, costituisce un freno costante per il sistema Italia limitando le possibilità soprattutto dei cittadini meno abbienti, delle imprese più giovani e innovative e dei consumatori di fronte alle grandi aziende.
“Non ci sono dubbi sull’impatto negativo di una macchina processuale inefficiente su tutta la società, in primis sull'economia – continua Zuffi –. Pensiamo solo ai contratti di telefonia che non vengono applicati in conformità alle clausole pattuite, ai crediti delle imprese o alle liti di condominio: è davvero infinito il numero delle controversie civili che possono segnare la nostra quotidianità e la vita economica del Paese”. Ma come fare a smuovere una situazione che dura da anni? Il PNRR punta a una riduzione del 40% dei tempi attraverso alcune direttrici: digitalizzazione, aumento delle risorse e degli organici, incentivi a forme di risoluzione delle controversie alternative al processo (alternative dispute resolution o ADR).
Per quanto riguarda la digitalizzazione l’obiettivo è andare oltre il cosiddetto il processo civile telematico, una realtà già presente dal 2014 e recentemente approdata anche ai giudizi in cassazione, per ripensare dalle fondamenta l’intero sistema processuale in funzione dei nuovi mezzi di comunicazione e di relazione. Spiega Beatrice Zuffi: “In Inghilterra è ad esempio in discussione un ampio progetto di riforma volto ad esplorare la piena potenzialità del mezzo telematico per costruire una nuova forma di processo. Questo ha portato ad elaborare una nuova concezione extended court, in cui la corte che diventa un punto di riferimento per gestire insieme vari livelli di giustizia, compresi appunto i mezzi di risoluzione alternativa. Ma ci sono anche l'India e l'estremo oriente: in Cina abbiamo già corti che operano esclusivamente su internet, con una sede virtuale e un procedimento pensato e congegnato all'interno di quel mezzo. Un’opzione da valutare anche da noi, se solo pensiamo alla miriade di controversie sui contratti stipulati on line”. Per quanto infine riguarda le ADR secondo Zuffi “Si tratta di una strada già perseguita negli ultimi anni dal legislatore italiano, con l'introduzione della negoziazione assistita e l’istituzione della mediazione obbligatoria in molti settori del contenzioso civile. Attenzione però: per incentivare i metodi alternativi è comunque necessario un apparato giudiziario efficiente”.
Scommettere sulla mediazione
Proprie le alternative dispute resolution formano l’oggetto di 10 proposte indirizzate alla ministra della Giustizia Marta Cartabia dal comitato ‘Avvocati per la negoziazione’, nato per promuovere e favorire la cultura della negoziazione quale valido strumento di definizione stragiudiziale delle controversie. Per il presidente del comitato Anna Ferrari Aggradi “siamo partiti da un discorso del ministro, che ha parlato di crisi della giustizia e di come uscire da questa situazione di impasse, per affermare che lo strumento primario potrebbe essere proprio la mediazione civile e commerciale, in modo da togliere contenzioso dai tribunali e allo stesso tempo abbassare la conflittualità sociale. Bisogna però introdurre alcuni correttivi, tra cui ampliare le materie in cui la mediazione è obbligatoria e prevedere sgravi fiscali a favore di chi vi ricorre; occorre inoltre incentivare la mediazione delegata da parte dei giudici”.
La mediazione civile e commerciale è stata introdotta nell’ordinamento italiano con il D.lgs. 28/2010 e oggi è utilizzata in molti ambiti; essa va considerata tra gli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie civili assieme ad altri istituti giuridici come arbitrato e negoziazione assistita. “Mentre l’arbitrato è simile a giudizio, in cui l’arbitro è una sorta di giudice privato, nella mediazione c’è sempre un terzo neutrale, il mediatore, un professionista che si forma e si aggiorna costantemente, che però ha una funzione completamente diversa: non decide la controversia creando vincitori e vinti ma promuove il dialogo tra le parti – spiega l’avvocato Ferrari Aggradi –. Per questo va anche a scavare nella componente emotiva e relazionale che ha generato il conflitto, per capire da dove nascono le richieste delle parti e aiutarle a trovare insieme una soluzione”. Un’opzione win-win che mira insomma al soddisfacimento reciproco.
Come in un processo davanti a un giudice l’esito finale delle ADR è un titolo esecutivo, che in pratica ha la stessa efficacia di una sentenza “ma non è imposta dall’alto e quindi ha più probabilità di essere rispettata, risparmiando su tempi e costi successivi – continua Ferrari Aggradi –. Essa va inoltre concretamente incontro alle possibilità e alle esigenze delle parti; pensiamo ad esempio ai contratti di locazione per i negozi durante l’ultimo lockdown, in cui molti locali sono rimasti al lungo chiusi e quindi impossibilitati a pagare affitto. Davanti a giudice si ha la rottura del rapporto, viceversa con la mediazione è più facile arrivare a una rinegoziazione, ad esempio collegando l’importo dei canoni ai giorni di apertura”.
A chi ha timore di una giustizia ‘privatizzata’, appannaggio dei più ricchi, la giurista risponde che “in realtà i costi sono molti più bassi rispetto a quelli di un giudizio. C’è inoltre un vantaggio in più: la durata massima della mediazione è stabilita dalla legge in tre mesi, con evidenti vantaggi per privati e aziende. La cosa però più importante è che si tratta di una decisione non imposta, ma che nasce dal dialogo tra le parti. Non una giustizia privata ma partecipata: sono le persone stesse a regolare i loro conflitti, ovviamente con l’aiuto di professionisti”.