SCIENZA E RICERCA

Il riccio, sentinella della salute dei mari

A partire dalla rivoluzione industriale, l’utilizzo dei combustibili fossili ha determinato un forte aumento della concentrazione di anidride carbonica in atmosfera. I media parlano spesso dell’intensificazione dell’effetto serra, del conseguente aumento delle temperature medie del pianeta e dello scioglimento dei ghiacci ai poli. Un dato che non può passare inosservato è che circa il 30% della COantropogenica è stato assorbito dalla superficie dei mari e degli oceani, a ciò consegue l’alterazione della composizione chimica dell’acqua marina. Dall’inizio dell’era industriale, il pH degli oceani si è abbassato di circa 0.1-0.15 unità. Questo valore può sembrare insignificante, ma considerando che la scala del pH, come la scala Richter, è logaritmica, questo calo corrisponde ad un aumento in concentrazione di circa il 30% di ioni idrogeno e quindi ad un forte aumento dell’acidità dell’acqua. Se non verranno apportate sostanziali restrizioni delle emissioni, la concentrazione di CO2atmosferica potrebbe arrivare attorno alle 450 parti per milione (ppm) entro il 2100. Al giorno d’oggi siamo arrivati al valore di 410 ppm, partendo da 280 ppm dell’era pre-industriale. Si prevede che gli oceani saranno progressivamente più acidi ed il loro pH si abbasserà di 0.4 unità entro il 2100, passando da circa 8.1 a circa 7.7. 

Oltre ad enormi quantità di anidride carbonica, i mari e gli oceani ricevono continuamente numerose sostanze chimiche prodotte dall’attività umana. Alcune di queste risultano tossiche per gli organismi marini e necessitano di lunghi periodi per essere degradate. Altre possono addirittura diventare più tossiche se metabolizzate dagli organismi o degradate in altro modo. In un simile scenario è quanto mai opportuno comprendere l’effetto combinato che questi agenti di disturbo possono avere sulle specie marine. 

Davide Asnicar, dottorando presso la stazione idrobiologica dell’Università di Padova con sede a Chioggia, studia gli effetti dell’acidificazione e della presenza di contaminanti chimici in Paracentrotus lividus, un riccio di mare ampiamente diffuso nel Mediterraneo.

Come mai ha scelto proprio questa specie per i suoi studi?

I ricci di mare, tra cui appunto il Paracentrotus lividus, vengono utilizzati ormai da molti anni come specie modello per studi degli effetti dei cambiamenti climatici e della presenza di contaminanti, sia per la relativa facilità di mantenimento in laboratorio che per la loro sensibilità ai fattori di stress ambientali.  P. lividus è una specie che troviamo nelle nostre zone e in tutto il Mediterraneo. Svolge una funzione rilevante per gli ecosistemi marini essendo un importante erbivoro, ma anche come preda per altri animali.

Quali evidenze ha riscontrato durante il suo lavoro sugli adulti, gli embrioni e le larve di questo riccio di mare?

Anche se il gruppo di ricerca della professoressa Marin, di cui faccio parte, si occupa degli effetti dell’acidificazione sugli invertebrati marini da tempo, il mio dottorato è iniziato da meno di un anno ed è ancora presto per valutare i miei risultati.

Nella letteratura scientifica però troviamo moltissimi articoli che trattano gli effetti dell’impatto antropico su ricci di mare. Gli effetti maggiori si riscontrano a livello larvale come anomalie nella crescita e ritardi nello sviluppo. Gli embrioni esposti a fattori di stress portano alla formazione di larve più piccole, deformi e con meno probabilità di sopravvivere. Il mio progetto di dottorato, come altri studi recenti, prende in considerazione anche gli effetti transgenerazionali, cioè effetti che si possono manifestare nella progenie di animali mantenuti per lunghi periodi in condizioni sperimentali.  Sono dati più difficili da ottenere perché richiedono tempi molto lunghi e una grande lavoro di manutenzione degli animali e degli impianti, ma grazie ai quali saremo in grado di capire se, grazie ad un acclimatazione dei genitori pre-esposti alle diverse condizioni sperimentali, i nuovi nati potranno far fronte al problema.

Quali sono le specie più sensibili all’acidificazione delle acque marine? 

Faccio una premessa. L’aumento della concentrazione di CO2nell’acqua di mare causa delle modificazioni chimiche, portando all’aumento degli ioni di idrogeno H+e alla sottosaturazione di minerali di carbonato di calcio (calcite e aragonite) che sono biologicamente molto importanti. Essi costituiscono il materiale di base con cui gli organismi costruiscono i propri scheletri e conchiglie. Le specie più sensibili sono quindi tutte quelle che posseggono strutture calcaree, formate da carbonato di calcio, ad esempio coralli, molluschi bivalvi come cozze e vongole, ricci di mare e alghe coralline.  In particolare saranno gli organismi che già posseggono strutture calcaree agli stadi larvali i primi a farne le spese. Le prime fasi di sviluppo sono già di per sé critiche e da esse dipende non solo il raggiungimento dello stadio adulto, ma anche il mantenimento delle popolazioni naturali.

L’impatto su queste specie avrà degli effetti sia a livello ecologico che a livello economico. Infatti, alcuni di questi organismi sono di interesse commerciale e, inoltre, da loro dipendono altre specie che vengono consumate quotidianamente, come pesci e crostacei.

In previsione di un ulteriore abbassamento del pH degli oceani, quali sono i possibili scenari futuri per la sopravvivenza degli organismi marini?

In un modo o nell’altro, la vita nell’ambiente marino continuerà ad esistere, ma non come la conosciamo. Molto probabilmente non ci saranno più le attuali barriere coralline, ma altre forme di vita che riusciranno a far fronte all’impatto antropico.  Il pianeta Terra è da sempre stato soggetto a cambiamenti climatici. Il problema attuale consiste nella velocità con cui questi cambiamenti stanno avvenendo. In passato, le modificazioni di pH e temperatura sono avvenute nell’arco di migliaia di anni e gli organismi hanno potuto adattarsi. I cambiamenti che stiamo vedendo ai giorni nostri si stanno verificando da circa 200 anni, un lasso di tempo troppo breve per permettere ad alcuni organismi di adattarsi.

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012