Pozzi della centrale di Madonna di Lonigo, Vicenza - foto di Gianluca Cecere/laif per Contrasto
Quella che deriva dall’inquinamento di PFAS è una “violenza invisibile”, per dirla con il titolo del libro di Adriano Zamperini, lo psicologo dell’Università di Padova che ha studiato gli effetti dell’inquinamento sulle comunità locali, dedicando grande attenzione a quelle del vicentino e del veronese. Come abbiamo scritto nella prima puntata di questa serie dedicata ai costi dell’inquinamento da PFAS, nel Veneto occidentale oltre 350 mila persone sono state esposte ad acque contaminate da sostanze invisibili, inodori e insapori. La storia è cominciata tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, ma solo negli ultimi anni si è arrivati a definire i contorni del disastro e delle sue conseguenze. Per questo, oltre che invisibile, quella perpetrata dall’inquinamento da PFAS è anche una “violenza lenta”, per riprendere una celebre definizione dello studioso sudafricano Rob Nixon: uno stillicidio, come di un rubinetto che perde e che, goccia a goccia, solo dopo molto tempo mostra i danni che ha prodotto.
Per gli oltre 23mila siti contaminati mappati nell’inchiesta pubblicata nel 2023, cui è poi nato il Forever Lobbying Project cui partecipano anche gli autori di questo articolo per Il Bo Live, il problema principale ora è un’altra caratteristica dei PFAS: l’essere degli “inquinanti eterni”. Sono infatti sostanze chimiche di sintesi che, proprio grazie alla loro straordinaria stabilità, hanno trovato applicazione in moltissimi campi, dalla produzione di materiali idrorepellenti agli schiumogeni usati dai vigili del fuoco per arginare gli incendi. Come abbiamo visto nell’articolo precedente, le aziende gestrici delle acque potabili della zona contaminata in Veneto hanno reagito all’emergenza introducendo misure di depurazione delle acque che vengono prelevate dalla falda e andando alla ricerca di nuove fonti d’acqua. Tutto questo ha un costo che ricade abbondantemente sulle bollette pagate dalla cittadinanza stessa, ma non risolve il problema: le falde rimangono ancora oggi abbondantemente inquinate. In questa nostra seconda puntata del Forever Lobbying Project cerchiamo di fare il punto sulle tecnologie a disposizione per la rimozione dei PFAS dalle acque e per la bonifica. Con qualche considerazione più generale sulla dimensione politica del problema.
Intermezzo: l’azione di lobby per limitare i divieti
Visti i danni enormi per l’ambiente e la salute, e gli scenari di costi stratosferici, oltre a quelli concreti già molto ingenti che abbiamo raccontato nella prima puntata di questa inchiesta, è importante anche chiedersi quale sia l’attuale visione politica che i paesi europei esprimono nei confronti della possibilità di limitare o vietare del tutto la produzione e utilizzo dei PFAS.
Punto di partenza interessante per capire come si sta muovendo la politica e quanto sia indipendente o meno rispetto alle pressioni dei settori industriali è la proposta fatta da cinque paesi europei (Danimarca, Olanda, Germania, Svezia e Norvegia) per introdurre una “restrizione universale” dei PFAS sotto la direttiva europea che regolamenta il settore chimico, la REACH (Registration, Evaluation, Authorisation and Restriction of Chemicals). Il divieto proposto riguarderebbe l’intero universo PFAS, con deroghe solo per alcuni composti per i quali al momento le alternative non siano ancora disponibili sul mercato. Naturalmente, la risposta delle industrie chimiche non si è fatta attendere. Un’azione di lobby massiccia ha portato centinaia di aziende e associazioni che le rappresentano a presentare documenti e a fare pressioni proponendo una vasto range di argomentazioni per contrastare e possibilmente minare la proposta di bando in tutte le sedi possibili a livello europeo.
Il Forever Lobbying Project, nato dall’azione coordinata, come abbiamo già raccontato nella prima puntata, di 46 giornalisti da 29 media in 16 paesi europei, ha raccolto, attraverso richieste di accesso agli atti, interviste, consultazione dei database scientifici e contatti diretti anche con associazioni che fanno monitoraggio delle lobby aziendali a Bruxelles, come il Corporate Europe Observatory, oltre 14mila documenti. Questi “PFAS papers” sono stati organizzati, analizzati e resi per la prima volta disponibili pubblicamente in modo aperto attraverso un accordo con due diversi archivi americani, l’Industry Documents Library della University of California, San Francisco (dove sono conservati anche i famosi “Tobacco Papers”) e Toxic Docs (Columbia University, New York, and City University of New York). Nel database della UCSF i documenti sono organizzati e accessibili sotto il Chemical Industry Documents Archive.
Più di 8000 documenti tra questi sono relativi all’azione di lobby da parte del settore chimico. I giornalisti del progetto di inchiesta, in collaborazione con diversi accademici esperti hanno messo in campo una analisi e un’attenta azione di fact checking, verifica, controllo delle fonti e dei conflitti di interessi, dichiarati o meno, di alcuni scienziati consulenti delle aziende. Un vero e proprio stress test corposo e molto documentato. Non c’è dubbio che oltre a provare a difendere questi composti come essenziali al progresso, all’innovazione tecnologica, alla sicurezza, allo sviluppo economico e, in ultima analisi, al benessere economico dei paesi europei e del settore industriale, le aziende usino spesso un’argomentazione già sentita in passato e sempre smentita dai fatti. “Non esistono alternative”. Nel senso che per molti degli usi attuali dove i PFAS trovano impiego non ci sarebbero tecnologie, composti, soluzioni diverse, meno impattanti. Ma diverse ricerche, esperienze e molti dei documenti analizzati dimostrano che questo non è sempre vero. E infatti, dopo il divieto di produzione e utilizzo dei primi PFAS in Europa, e la discussione pubblica sull’opportunità di regolamentare anche gli altri, una serie di aziende hanno già avviato in forma autonoma azioni di ricerca e sviluppo per trovare soluzioni alternative meno inquinanti, perlomeno alla luce delle conoscenze attuali. Certo è che se non si sostiene la ricerca e non ci si dà un orizzonte preciso per la messa al bando le alternative non ci sono perché si preferisce non investire per trovarle.
Rendere potabile l’acqua
Sia Acque Veronesi, sia Acque del Chiampo, le aziende che si sono trovate a gestire l’emergenza dal 2013 nella zona rossa all’incrocio tra le province di Vicenza, Verona e Padova, quando è scoppiato il caso PFAS, hanno rapidamente messo in opera i filtri a carbone attivo. Si tratta di una tecnologia ampiamente impiegata nella depurazione e nella potabilizzazione dell'acqua che permette di rimuovere alcune sostanze, in questo caso i PFAS, attraverso un processo di filtrazione: l'acqua viene fatta passare a contatto con un materiale poroso, che è il carbone attivo, e le sostanze da rimuovere vengono trattenute perché formano legami sia chimici che fisici con il materiale stesso. Alla base di questo processo c’è l'adsorbimento, per cui molecole di gas o liquidi aderiscono alla superficie di un solido o liquido, come è appunto il carbone attivo. Questo materiale è particolarmente efficace grazie alla sua elevata superficie specifica. A differenza dell'assorbimento, in cui le molecole penetrano nel materiale, nell'adsorbimento esse si legano alla superficie associata alla struttura (micro)porosa del materiale.
Con il passare del tempo, i filtri si saturano e devono essere sostituiti perché perdono di efficacia. Le due aziende che abbiamo sentito ci hanno confermato che il carbone attivo viene sostituito all'incirca ogni due mesi. In teoria, i filtri possono essere rigenerati e utilizzati. Ce lo spiega Manuela Antonelli, professoressa al Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale del Politecnico di Milano, dove si occupa di ciclo dell'acqua con particolare attenzione alle tecnologie per la rimozione dei contaminanti in tracce. "Il carbone attivo può essere utilizzato fino a sei, sette volte senza problemi", ci conferma all'interno di una lunga intervista che facciamo online, dopo averla conosciuta in presenza durante un workshop di aggiornamento sul problema PFAS che si è tenuto al Politecnico, principalmente dedicato agli addetti ai lavori. Ma la possibilità di rigenerare, e riutilizzare, il carbone attivo dipende dalla quantità di PFAS che si accumula durante l’utilizzo. Però si tratta comunque di una questione sulla quale “fino a qualche anno fa non c’era conoscenza specifica rispetto ai PFAS e, per esempio, c’era la paura che nel processo di rigenerazione non andassero via”. Oggi sappiamo che non è così, ma ciononostante le aziende preferiscono cambiare del tutto il carbone attivo. Con la conseguenza, però, che la sostituzione rende più consistenti i costi, come abbiamo visto proprio nella prima puntata di questa inchiesta.
Possiamo solo immaginare lo sconcerto e la preoccupazione dei tecnici di queste aziende, quando si sono trovati a fronteggiare un pericolo così invisibile, subdolo e persistente. “Tutto è evoluto nel tempo,” ci racconta Massimo Carmagnani, che è il Responsabile ricerca e sviluppo di Acque Veronesi, in una lunga conversazione nel corso della quale ci ha spiegato bene i costi ma anche le difficoltà, il processo di scoperta, un po’ alla volta, di questi nuovi inquinanti, e l’impegno messo nel trovare soluzioni efficaci per portare acqua pulita e bevibile alle persone della zona, dopo anni di contaminazione dovuta agli scarichi dell’azienda Miteni. “All'inizio ci è stato detto che c'era un inquinante, ma non lo si conosceva. Poi, con la pubblicazione a firma del CNR (il lavoro di Stefano Polesello e Sara Valsecchi del 2013 di cui abbiamo parlato nel primo articolo) cambia tutto. Ci piove addosso questo problema e cerchiamo di cambiare i filtri nell'impianto, così com’era organizzato all'epoca, e a utilizzare pozzi di prelievo dove pensiamo ci sia meno inquinante, anche se in quel momento non c’erano limiti da osservare. Nessuno aveva ancora posto un limite, all'inizio.” Poi, negli anni, arrivano i limiti imposti dalla Regione Veneto, e si capisce che il problema non è limitato ai due composti più noti, il PFOS e il PFOA. Si arriva dunque al concetto di zero tecnico, il livello minimo raggiungibile con i filtri e le tecnologie disponibili. “Con la centrale esistente però non riuscivamo a raggiungere lo zero tecnico in tutte le analisi,” continua Carmagnani. Per questo è stato necessario investire quasi 2 milioni di euro “per creare una doppia filtrazione a carbone che lo garantisse.” Ci mostra una serie di immagini satellitari prese da Google Earth, in cui si vede chiaramente come sono cambiate le centrali nel tempo. “All'inizio avevamo una vasca senza filtri. Nel 2013, quando è nato il problema, c’erano i primi filtri, introdotti dal precedente gestore per abbattere i composti associati alla produzione conciaria, tipica di questa zona. E quindi in quel momento abbiamo dovuto adattare questi, non avevamo altro a disposizione. Nel 2017 poi il comparto filtri si è ampliato notevolmente così come il serbatoio di accumulo. Infine, nel 2018 si vede la costruzione della seconda batteria di filtri. La centrale oggi è ancora così.” L’unica alternativa che i gestori vedono oggi, come abbiamo già raccontato, è trovare nuove fonti di approvvigionamento, visto che i costi attuali di purificazione sono altissimi e che l’inquinamento resterà elevato per decenni. “È chiaro che siamo arrivati al limite della tecnologia disponibile, in questo caso. Abbiamo lavorato ormai per un decennio con questi filtri. Abbiamo sperimentato, condiviso, pubblicato. Spingere oltre a questo sicuramente non è possibile se non investendo ancora” conclude Carmagnani.
Altre tecnologie, tra scalabilità e approccio sistemico
Facendo una ricerca nella letteratura scientifica, la quantità di proposte diverse per ridurre o eliminare i PFAS è davvero elevata. Ma “le tecnologie affidabili a piena scala che esistono oggi sono due”, spiega Antonelli, “e sono l'adsorbimento su carbone attivo e le tecnologie di separazione su membrana in pressione, cioè la nanofiltrazione e l'osmosi inversa”. Perché la scelta ricade quasi sempre sul carbone attivo all’interno degli impianti di depurazione e potabilizzazione delle acque? Il punto fondamentale è che in quasi tutti gli impianti di potabilizzazione, come quelli gestiti da Acque Venete e Acque del Chiampo, è già presente una sezione di adsorbimento. Come ci spiega Antonelli, “si tratta eventualmente di gestirla in maniera diversa per rimuovere i PFAS”, ma si tratta di una “tecnologia che i gestori conoscono già molto bene”. Questo è in effetti confermato da quanto ci ha raccontato Carmagnani, che ha ben spiegato lo sviluppo progressivo e l’adattamento del sistema di filtrazione di Acque Veronesi. Invece le tecnologie basate sulle membrane, continua Antonelli, “vanno a toccare anche la composizione inorganica dell'acqua, vanno a togliere i sali”. Non a caso, infatti, le tecnologie a membrana vengono usate negli impianti per la dissalazione dell’acqua di mare. Ma l’acqua senza sali non è ideale per il consumo e deve, eventualmente, essere addizionata di sali minerali necessari. Un passaggio ulteriore che ha un costo non trascurabile.
Quando parliamo di ricerca e sperimentazione di tecnologie alternative, è necessario considerare un aspetto chiave, la scalabilità. “La ricerca chiaramente parte da piccolissime scale di lavoro, in laboratorio” spiega ancora Manuela Antonelli, “ma non tutti i processi sperimentati su piccola scala riescono a vedere un passaggio a scale più grandi. Ci sono molti studi su tecnologie di grande scala che necessitano però di essere migliorate e ottimizzate per rimuovere i PFAS in maniera efficace. E poi c’è tutto un filone di studi che invece si concentra su tecnologie molto nuove ma che ancora non hanno mai visto il passaggio a grande scala”. E che potrebbero, per ragioni economiche, di efficienza, di prestazioni, non fare mai il salto e diventare dunque tecnologie non applicabili.
Oltre alle questioni di scala, fondamentali sono anche quelle di sistema. Manuela Antonelli ci spiega che l’approccio di valutazione degli effetti e impatti di una tecnologia non può, in un mondo complesso come quello in cui viviamo, essere focalizzato solo su singole filiere. È necessaria una valutazione del problema in tutte le sue dimensioni. Per fare un esempio, i PFAS possono, come abbiamo capito, essere eliminati dall’acqua potabile grazie al carbone attive, oggi molto efficace. È chiaro che il gestore dell’acqua ha urgenza di garantire acqua potabile e PFAS-free ai suoi clienti, e dunque quella è la sua priorità. Ma dal punto di vista generale, per esempio delle istituzioni che governano un territorio, è necessario guardare oltre. Il carbone esausto e carico di PFAS che viene cambiato ogni due mesi, per esempio, come ben spiegava già Carmagnani, non si dissolve magicamente. Va trattato, e l’unico modo di farlo efficacemente è incenerirlo a temperature molto elevate, oltre i mille gradi centigradi. "In letteratura, però", precisa Antonelli, "gli studi sulla combustione dei PFAS ad alte temperature sono relativamente pochi". Sappiamo bene dunque che l’incenerimento è efficace, ma conosciamo meno bene cosa succede a quei fumi, dove finiscono e che effetti potrebbero eventualmente avere. “Dobbiamo abituarci a guardare il sistema nel suo complesso,” continua Antonelli, “Oltre a usare un obiettivo macro, che fotografa benissimo il singolo processo, dovremmo usare anche un grandangolo, che ci permette di capire qual è la soluzione giusta per risolvere un problema senza crearne un altro. Altrimenti rischiamo di perdere di vista qualche passaggio, qualche processo, qualche impatto, scoprendolo solo a posteriori, quando il danno è ormai già avvenuto, proprio come nel caso dei PFAS."
Quando “per sempre” è forse un po’ troppo
Avere a che fare con i PFAS, continuando nella metafora fotografica, è come guardare una fotografia contemporaneamente a diverse risoluzioni. La guardi da molto vicino, distinguendo i singoli pixel che la compongono, e ti ritrovi a confronto con gli sforzi delle aziende dell’acqua per rendere potabile ciò che esce dai rubinetti delle nostre case, con il tentativo di gestire un’emergenza salvando il salvabile con la tecnologia a disposizione e cercando nuove fonti d’acqua. Ma basta allargare un po’ lo sguardo, perdere di vista il dettaglio, che il nostro campo visivo è invaso da nuove forme e domande: esistono altre tecnologie al vaglio della scienza? Magari tecnologie che ci permettano di pensare a medio termine con una maggiore fiducia, trovando per esempio alternative ai PFAS per alcuni impieghi? In questi due orizzonti, l’investimento in ricerca appare fondamentale per trovare nuove soluzioni, e in questo caso la questione non è più solo scientifico-tecnologica, ma uno stimolo di riflessione per la società nella sua interezza.
Si può, però, allargare ancora lo sguardo, osservando la fotografia a una risoluzione ancora più alta, perché tutte gli esperti e le esperte che abbiamo sentito a Il Bo Live e, più in generale, nel Forever Lobbying Project, sottolineano che la questione PFAS va affrontata su un piano sistemico. A questo livello entra in gioco la volontà o meno di vietare la produzione e l’uso dei PFAS di cui si discute nell’Unione Europea: abbiamo davvero bisogno di una molecola per rendere antiaderenti le pentole? Davvero non ci sono alternative a quei PFAS impiegati nelle sostanze ignifughe usate dai vigili del fuoco? Più volte, nel corso della recente storia della chimica industriale, ci siamo trovati di fronte a divieti che avrebbero dovuto bloccare lo sviluppo scientifico e sociale. È successo con il DDT prima e con i CFC dopo, giusto per citare due esempi molto noti: in entrambi i casi si sono trovate soluzioni diverse che, anzi, hanno stimolato lo sviluppo tecnologico e l’innovazione. Allora, a questa alta risoluzione, la fotografia dei PFAS che stiamo guardando chiama in causa la politica, cioè quella dimensione del nostro vivere comune in cui ci interroghiamo su come vogliamo vivere oggi e su come vogliamo vivere domani.
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Puoi leggere la prima parte dell'inchiesta qui su Il Bo Live PFAS: il conto salato pagato dai cittadini per avere acqua pulita
Crediti
L’inchiesta cross-border Forever Lobbying Project è stata coordinata da Le Monde e ha coinvolto oltre 46 giornalisti e 29 media partners provenienti da 16 paesi: RTBF (Belgio); Denik Referendum (Repubblica Ceca); Investigative Reporting Denmark (Danimarca); YLE (Finlandia); Le Monde e France Télévisions (Francia); MIT Technology Review Germany, NDR, WDR e Süddeutsche Zeitung, (Germania); Reporters United (Grecia); L'Espresso, RADAR Magazine, Il Bo Live, Facta.eu e Lavialibera (Italy); Investico, De Groene Amsterdammer e Financieele Dagblad (Paesi Bassi); Klassekampen (Norvegia); Oštro (Slovenia); DATADISTA / elDiario.es (Spagna); Sveriges Radio e Dagens ETC (Svezia); SRF (Svizzera); The Black Sea (Turchia); Watershed Investigations / The Guardian (Regno Unito), con una partnership editoriale con Arena for Journalism in Europe, e in collaborazione con l’Osservatorio no profit sulle lobby Corporate Europe Observatory.
L’inchiesta è basata su oltre 14,000 documenti fin qui mai pubblicati sui PFAS; le sostanze chimiche persistenti, detti perciò anche forever chemicals. Il lavoro ha incluso la sottomissione di 184 richieste di accesso agli atti (FOIA), 66 dei quali sono state condivise con il nostro progetto dal Corporate Europe Observatory.
L’inchiesta ha sviluppato ulteriormente l’esperimento di giornalismo ‘expert-reviewed’ (rivisto e verificato da esperti) inaugurato nel 2023 con il Forever Pollution Project attraverso la costituzione di un gruppo di esperti composto da 18 esperti accademici internazionali e avvocati.
Il progetto è stato supportato finanziariamente dal Pulitzer Center, la Broad Reach Foundation, Journalismfund Europe, e IJ4EU.
Il sito di riferimento del progetto internazionale è: https://foreverpollution.eu.