13 luglio 2020: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella con il presidente sloveno Borut Pahor al Narodni Dom
Il 13 luglio 1920 bruciava a Trieste il Narodni Dom (‘casa del popolo’), in quello che Renzo De Felice definì “il vero battesimo dello squadrismo organizzato”. Esattamente 100 anni dopo lo storico centro culturale è stato simbolicamente restituito alla comunità slovena, con una cerimonia solenne a cui hanno partecipato il presidente Mattarella e il suo omologo sloveno.
Poco prima i presidenti, che nella mattina avevano simbolicamente reso omaggio a Basovizza alle vittime della foiba e a quattro giovani antifascisti della minoranza slava fucilati nel 1930, hanno insignito delle massime onorificenze dei due Paesi Boris Pahor, cittadino italiano ma considerato il massimo autore vivente in lingua slovena. “Non ho fatto niente per ottenere riconoscimenti così straordinari – si schermisce Pahor al telefono a Il Bo Live –. Mi ha solo fatto piacere che siano stati considerati i miei sforzi di dare alla gioventù la verità storica”. A quasi 107 anni (è nato il 23 agosto 1913) Pahor è ancora roccioso nelle sue convinzioni, il viso scavato come il suo Carso quando scende verso il mare.
Intervista a Boris Pahor di Daniele Mont D'Arpizio; editing e montaggio di Elisa Speronello
Lui era presente quella sera di un secolo fa, quando il Narodni Dom venne dato alle fiamme. “Piazza Oberdan era piena di gente che gridava in un alone di luce scarlatta – scriverà anni dopo nel racconto L’incendio nel porto –. Attorno al grande edificio invece c’erano uomini in camicia nera che ballavano gridando: ‘Viva! Viva!’ (…) Tutta Trieste stava a guardare l’alta casa bianca dove le fiamme divampavano a ogni finestra. Fiamme come lingue taglienti, come rosse bandiere”.
Nella sua vita lo scrittore ha attraversato, superandolo, il secolo breve: dalla gioventù sotto sotto il fascismo alla guerra in Africa nelle file del regio esercito, fino alla partecipazione alla resistenza, la cattura e la deportazione come internato politico nel lager di Dora. Un’esperienza che Pahor racconta in Necropoli, l’opera che lo ha fatto conoscere al grande pubblico internazionale accanto agli altri grandi della ‘letteratura dello sterminio’ come Primo Levi e Imre Kértesz. Una storia che tocca anche Padova, dove lo scrittore si laureò nel 1947 in lingue e letterature straniere con una tesi sul grande poeta sloveno Edvard Kocbek, pubblicata qualche anno fa dalla Padova University Press.
“ La ferita non è del tutto rimarginata, ma è l’inizio di un colloquio aperto e amichevole Boris Pahor
Oggi Boris Pahor riflette sul valore simbolico della storica riapertura della casa di cultura slovena: “Durante il fascismo a noi sloveni dicevano di restare sul Carso, in campagna, che non eravamo abbastanza sviluppati per essere cittadini normali, gente di cultura o di valore – ricorda lo scrittore –. Al decennale del rogo ci fu una addirittura una festa, in cui dissero di aver bloccato il tentativo di ‘slavizzare la città’. Ma non era vero: sloveni, croati e serbi facevano parte della città da secoli e non avevano atteso la costruzione della casa della cultura per avere un teatro. Teatri sociali c’erano già prima nei sobborghi di Trieste: a San Giovanni, Barcola e Servola, dove si rappresentavano Goldoni e Pirandello in lingua slava”.
Tutta la vita di Pahor è stata una lotta per preservare la lingua e la memoria della sua comunità: prima contro le persecuzioni del fascismo, che proibiva di parlare in sloveno, poi contro il nazismo e infine il comunismo, che vietò i suoi scritti in Jugoslavia. Nel 1975 infatti assieme ad altri infatti Pahor denunciò il massacro da parte dei delle milizie titine di migliaia di domobranci, gli appartenenti alle formazioni collaborazioniste slovene. Pahor ha sempre condotto in solitudine le sue battaglie, forte solo dell’appoggio di una comunità di poche migliaia di lettori. Per questo negli anni è stato anche criticato: contro di lui ad esempio sono piovute le accuse di sminuire la tragedia delle foibe e le sofferenze della comunità italiana durante e dopo la seconda guerra mondiale. Critiche che Pahor ha sempre affrontato a viso aperto, senza acredine ma anche senza voler compiacere gli interlocutori: per lui la scintilla del disastro fu la dura repressione delle minoranze slave durante il fascismo, di cui proprio il rogo della casa di cultura slovena segnò l’inizio.
Con lo storico gesto della restituzione, si apre un periodo nuovo; “Non direi che la ferita è del tutto rimarginata: è però l’inizio di un colloquio aperto e amichevole, che deve però essere basato sul riconoscimento del valore dell’apporto sloveno a Trieste come grande città internazionale. Trieste non è mai stata solo italiana; è stata anche italiana, questo sì, ma le saline ad esempio erano slovene, e da qui gli sloveni portavano il sale sul Carso e a volte anche oltre”.
Oggi i dissidi nazionali possono essere ricomposti nell’Unione Europea: “Guardi, la cosa peggiore sarebbe colpire questa unione bella, questa convivenza della pluralità nell’unità che è unica al mondo – conclude lo scrittore – in nome dello stato nazione, che è un’invenzione della rivoluzione francese. E proprio la Francia è oggi il Paese più retrogrado con le minoranze, mentre l’Italia ne riconosce dodici. La pluralità delle culture è un valore, non va risolto o eliminato con le guerre”. Un ultimo pensiero è dedicato al luogo in cui Pahor ha compiuto i suoi studi: “Padova è un’università conosciuta nel mondo ma anche una città simpatica, dove ci si può sentire amici anche tra persone di lingua e cultura diversa, come accadeva nel medioevo”.
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