Foto di G. Pinton
Che ci fa una mazza in argento dorato, con turchesi e riccamente decorata, nel tesoro della Basilica di Sant’Antonio a Padova? Insegna di potere militare, parente stretta della mazza ferrata ma in versione da parata, salta all’occhio per la foggia orientaleggiante, quasi turchesca.
Da secoli fa mostra si sé nella cappella delle reliquie e per molto tempo fu identificata come il bastone di comando di Erasmo da Narni, il celebre Gattamelata ritratto da Donatello nel monumento antistante la chiesa. Troppe cose però non coincidevano, a cominciare dalla forma e dalla datazione, che situavano il prezioso manufatto almeno un paio di secoli dopo il condottiero.
Così studi più accurati hanno chiarito che in realtà si trattava una Buława, una mazza donata alla basilica dal re polacco Giovanni III Sobieski, colui che con la sua cavalleria pesante – i celebri ussari alati, detti così perché indossavano delle ali sulla corazza – riuscì nel 1683 a rompere l’assedio turco di Vienna. Di qui la supposizione che il bastone fosse stato sottratto direttamente dalla tenda del comandante turco Kara Mustafa, e in seguito donato alla Basilica come ex-voto.
La teoria aveva era stata accreditata anche a livello storico, ma presentava diversi passaggi oscuri. Perché il re polacco avrebbe fatto questo prezioso omaggio proprio a Sant’Antonio, e quando e come sarebbe arrivato in possesso dei frati del convento? Da qui sono partiti gli alunni del Liceo Scientifico “Romano Bruni” di Ponte di Brenta per progettare – guidati dal loro docente Gionata Tasini e in collaborazione con diversi storici e studiosi, tra cui quelli dell’archivio della Veneranda Arca di S. Antonio, dell’ università di Padova e dell’Archivio di Stato – un laboratorio didattico del tutto particolare e non privo di sorprese.
Jan Sobieski con la Buława in due ritratti ottocenteschi, di Jan Mateiuko e Alexander Lesser
I risultati di questi sforzi sono oggi fruibili nella mostra “La mazza e la mezzaluna. Turchi, Tartari e Mori al Santo”, visitabile ai Musei Antoniani di Padova fino al 4 ottobre, e nell’agile e interessante libretto appena pubblicato dalle Edizioni Messaggero di Padova.
Come risulta dagli archivi, consultati dai valenti liceali, la mazza fu donata al Santo ben prima dell’assedio di Vienna e si riferisce probabilmente a un’altra vittoria di Sobieski: quella riportata l’11 novembre 1673 a Sochim contro i turchi e i cosacchi, che successivamente avrebbe contribuito a fargli guadagnare la corona (in Polonia infatti la monarchia era elettiva e non ereditaria).
“ Il dono testimonia la secolare relazione tra la Polonia e la Serenissima, in particolare con Padova
La mazza potrebbe essere giunta alla Basilica con la legazione da Cristoforo Masini, gentiluomo italiano al servizio dei re polacchi, e testimonierebbe la secolare relazione tra Padova e la Polonia, dove la devozione a Sant’Antonio era molto diffusa. Anche a livello dell’università, occorre ricordare che tra gli studenti stranieri la Natio Polona era seconda solo a quella tedesca per numero di componenti, tanto gli studenti polacchi avevano una loro cappella per le funzioni religiose proprio nella Basilica del Santo, al posto di quella che oggi ospita la pala di S. Massimiliano Kolbe. In seguito questa fu trasferita nella posizione attuale e splendidamente affrescata dal pittore Tadeo Popiel nel 1899, quando un moderno stato polacco non era ancora stato ricostituito. Proprio l’anno scorso, a 120 anni di distanza e nel centenario della nascita della Repubblica Polacca, ne è stato inaugurato il restauro: “Un’occasione per ricoprire l’importanza di questa presenza in Basilica: ancora oggi sono numerosissimi i pellegrini polacchi – spiega Giovanna Baldissin Molli, docente di storia delle arti applicate e dell'oreficeria presso l’università di Padova e componente del collegio di presidenza della Veneranda Arca, curatrice della mostra e del catalogo –. Questa cappella è un piccolo cuore che ha continuato a pulsare anche quando la Polonia non c’era più”.
Priva di fondamento è invece la voce che lo stesso Jan Sobieski sia stato studente a Padova, tanto che ancora oggi la sua statua campeggia in Prato della Valle assieme a quella di tanti altri cittadini illustri. La storia è accreditata da Niccolò Comneno Papadopoli nella sua vasta Historia Gymnasii Patavini (Venezia 1726) e in effetti negli archivi dell’università figurano ben tre Sobieski, tra cui uno Jan, a suo tempo identificato con l’eroe polacco: si tratta però – come si evince sempre dalla ricerca fatta dai ragazzi – non dell’omonimo re ma molto probabilmente di uno zio paterno.
La statua di Giovanni III Sobieski in Prato della Valle
In realtà quasi certamente il Sobieski non si recò mai in Italia, ma questo non nega i suoi rapporti con la Repubblica di Venezia e in particolare con Padova: fu infatti corrispondente di Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, e dopo la sua morte la moglie volle espressamente visitare proprio la Basilica di Sant’Antonio.
Le vicende della mazza sono state anche lo spunto per una ricerca, a cui si è dedicata la professoressa Baldissin Molli, sui segni e le opere che alcune culture, lontane nel tempo e nello spazio, hanno lasciato nella Basilica e nel complesso antoniano. Un lungo lavoro sulle memorie che rievocano l’alterità, fisica e culturale; le immagini di saraceni, infedeli, mori, ebrei, mongoli, tartari, ottomani, pirati e turchi sono diventate così l’occasione per riflettere sul tema dell’incontro: a volte tragico e drammatico, a volte foriero di scambi commerciali e culturali. Come nel caso del beato Odorico da Pordenone, autore nel 1330, proprio nel convento del Santo, di un vero e proprio reportage di viaggio nell’Estremo Oriente. Una mostra che quindi parte da un segno di potere e di guerra per arrivare al tema del dialogo e della conoscenza reciproca, di cui la Basilica di Sant’Antonio è da secoli centro di attrazione.