SOCIETÀ

Taiwan-Cina: cresce la tensione politica e militare

«E se necessario faremo ancora di più»: si è chiusa con un’esplicita minaccia, diramata dal ministero della Difesa cinese, l’ennesima “provocazione” militare condotta da Pechino lunedì scorso nei confronti di Taiwan: l’isola, formalmente indipendente dal 1949 (quando il Giappone, dopo la sconfitta nella seconda Guerra Mondiale, l’abbandonò, lasciandola agli Stati Uniti), ma reclamata unilateralmente dalla Cina come “parte del proprio territorio”, è stata circondata da 14 navi da guerra cinesi, tra fregate e cacciatorpedinieri, mentre 153 aerei sorvolavano la zona, 111 dei quali hanno violato lo spazio aereo di Taiwan superando la linea mediana dello Stretto di Taiwan. È stata la più imponente esercitazione militare (chiamata Joint Sword-2024B) mai condotta dalla Cina nell’area. E non è una sorpresa, dal momento che all’inizio di quest’anno le elezioni presidenziali di Taiwan erano state vinte da Lai Ching-te, un ex medico noto anche con il nome di William Lai, del Partito Democratico Progressista (DPP), convinto indipendentista, entrato formalmente in carica nel maggio scorso. 

Il 10 ottobre scorso, in occasione della Festa Nazionale di Taiwan, chiamata anche Double Ten Day (dalla data, dieci-dieci), il presidente aveva pronunciato parole chiare: «Manterrò l’impegno di resistere all’annessione o all’invasione della nostra sovranità. La Repubblica di Cina (nome ufficiale di Taiwan) e la Repubblica popolare cinese non sono subordinate l’una all’altra», ha sottolineato Lai Ching-te, per poi aggiungere, in maniera ancor più esplicita: «Pechino non ha alcun diritto per rappresentare Taiwan» (qui il resoconto integrale del suo discorso). Parole che hanno innescato la rabbia di Pechino. «Questa è una punizione risoluta per Lai Ching-te, per la sua continua fabbricazione di sciocchezze sull’indipendenza di Taiwan», ha dichiarato l’Ufficio cinese per gli affari di Taiwan. La risposta di Taipei è stata altrettanto ferma: «La Cina deve smettere di minacciare la democrazia e la libertà di Taiwan». Joseph Wu, segretario generale del Consiglio di sicurezza di Taiwan, ha inoltre avvisato: «Il nostro esercito affronterà la minaccia della Cina in modo appropriato. Minacciare altri paesi con la forza viola lo spirito fondamentale della Carta delle Nazioni Unite di risolvere le controversie con mezzi pacifici». Anche gli Stati Uniti, principale “partner” dell’indipendenza di Taiwan (soprattutto in quanto a fornitura di armi), hanno criticato apertamente le esercitazioni cinesi: «Questa operazione di pressione militare è irresponsabile, sproporzionata e destabilizzante», ha dichiarato il portavoce del Pentagono, Patrick Ryder. Il Giappone ha espresso “preoccupazione” per le esercitazioni cinesi.

«Useremo anche la forza»

Con queste premesse sembra davvero improbabile riuscire ad arrivare a una risoluzione pacifica e condivisa della questione. In punta di diritto Taiwan (stato indipendente, ma riconosciuto da appena 12 nazioni) avrebbe anche ragione (qui la spiegazione da un punto di vista storico e giuridico), ma Xi Jinping continua a mostrare i muscoli con la sua ormai consueta retorica della “riunificazione della Grande Cina”. Una retorica che nasconde interessi economici non secondari: gran parte dell’elettronica mondiale, dai telefoni alle auto elettriche, è alimentata da chip per computer prodotti a Taiwan. E controllare Taipei consentirebbe alla Cina di espandere la sua egemonia economica e commerciale. «L’isola tornerà sotto il nostro dominio, se necessario anche con la forza, ma prometto il massimo sforzo per farlo pacificamente», ha più volte proclamato il presidente cinese. Il Taipei Times, il più importante quotidiano taiwanese, la riassume così: «In nessun’altra parte del mondo si potrebbe trovare un aggressore che consideri le sue azioni come “pacifiche”. È come un predatore sessuale che tira fuori un coltello e dichiara che lui e la sua vittima sono fatti l’uno per l’altra». Il ministero degli Esteri di Pechino ha definito l’indipendenza di Taiwan come «incompatibile con la pace nella regione». E Chen Binhua, portavoce dell'Ufficio per gli Affari di Taiwan del governo di Pechino, ha ribadito ieri: «Siamo disposti a impegnarci con la massima sincerità e impegno per la prospettiva di una riunificazione pacifica, ma non ci impegneremo mai a rinunciare all’uso della forza». Una minaccia che le autorità taiwanesi non stanno certo sottovalutando. Come ha sostenuto pochi giorni fa il comandante della Marina, Tang Hua, in un’intervista all’Economist: «L’esercito cinese sta facendo pressione su Taiwan usando tattiche ad alta intensità per stancare le forze taiwanesi e costringerle a commettere errori. La Cina sta usando una “strategia dell’anaconda” per spremere l’isola. Sono pronti a bloccare Taiwan in qualsiasi momento vogliano».

Le difficoltà di un attacco via mare

Ora la domanda è: Xi Jinping vuole davvero passare all’azione? Queste “provocazioni militari” potranno diventare nel breve termine qualcosa di più? Un attacco militare? E, nel caso, cosa accadrebbe? Davvero gli Stati Uniti sarebbero disposti a intervenire militarmente, con uomini, mezzi e armi, per difendere Taiwan, scatenando di fatto un conflitto aperto tra le due maggiori superpotenze, peraltro nucleari, del pianeta? E la Cina, quale vantaggio concreto avrebbe nel conquistare quell’isola, minuscola al suo confronto, paragonato al rischio di combattere una guerra di simili proporzioni? Interrogativi non da poco, a partire da quelli pratici, concreti. Perché un conto è fare un’esercitazione, pur eclatante; un altro è invadere Taiwan con soldati e mezzi in numero sufficiente per sconfiggere la resistenza dell’esercito locale (e dei suoi alleati: Stati Uniti e Giappone su tutti) e occupare con successo l’isola. Scriveva pochi mesi fa, al proposito, il Council on Foreign Relations, istituto americano specializzato in analisi di politica estera, in un dettagliato rapporto: «Per invadere Taiwan, la Cina dovrebbe condurre un’operazione militare straordinariamente complessa, sincronizzando la potenza aerea, terrestre e marittima, nonché la guerra elettronica e informatica. Il leader cinese Xi Jinping ha definito l’unificazione con Taiwan l’essenza" del “ringiovanimento” del Paese, che secondo lui deve essere raggiunto entro il 2049, nel centesimo anniversario della nascita della Repubblica Popolare Cinese. Raggiungere questo obiettivo militarmente, tuttavia, si rivelerebbe molto impegnativo. Invadere Taiwan o organizzare un blocco di successo sarebbe l’operazione militare più complessa della storia moderna, e l’esercito cinese non ha combattuto una grande guerra negli ultimi sette decenni. Lo Stretto di Taiwan, largo oltre novanta miglia, è incredibilmente increspato e, a causa di due stagioni monsoniche e di altri eventi meteorologici estremi: un’invasione via mare è praticabile solo pochi mesi all’anno. Il trasporto di centinaia di migliaia di soldati attraverso lo Stretto di Taiwan richiederebbe settimane di tempo e migliaia di navi. Ogni attraversamento richiederebbe ore, consentendo a Taiwan di prendere di mira le navi, ammassare le truppe su potenziali siti di atterraggio ed erigere barriere. E la flotta anfibia cinese è relativamente piccola. Inoltre a Taiwan sono pochi i porti e le spiagge in acque profonde utilizzabili per organizzare lo sbarco delle truppe. E non si può escludere che Taiwan possa distruggere i suoi principali porti all’inizio di un conflitto per impedire a un invasore di usarli».

Quindi le recenti esercitazioni cinesi sarebbero soltanto scenografia? Abbaiare, anche forte, sapendo che mordere potrebbe essere un problema? Non è di questo parere l’ammiraglio John Aquilino, ex comandante del Comando indo-pacifico degli Stati Uniti, che lo scorso aprile aveva tracciato un quadro preoccupante: «Il presidente Xi Jinping ha incaricato i suoi militari di essere pronti a invadere Taiwan entro il 2027». L’ammiraglio Aquilino aveva anche sostenuto che «…l’aumento delle attività militari che Cina e Russia hanno recentemente condotto assieme nell’Indo-Pacifico è preoccupante. Il legame delle nazioni autoritarie per cambiare l’ordine mondiale dovrebbe preoccupare tutti coloro che hanno valori comuni, in particolare la libertà, l’ordine basato sulle regole e lo stato di diritto».

Si profila un conflitto mondiale

Quel che è certo è che qualora il presidente cinese decidesse di sferrare un concreto attacco a Taiwan (con la complicità di Russia e Corea del Nord), si troverebbe a fronteggiare una reazione in prima battuta, e nessuno sa ancora di quale entità, da parte di Stati Uniti e Giappone, oltre all’India e all’Australia (tutte nazioni che fanno parte della Quadrilateral Security Dialogue, denominata “Quad”, una cooperazione strategica informale nata proprio con l’obiettivo di contenere l’espansionismo cinese nella regione dell'Indo-Pacifico). Il che equivarrebbe all’apertura non soltanto di un terzo fronte di guerra, dopo Ucraina e Medio Oriente, ma di un potenziale conflitto che andrebbe a muovere le principali potenze (anche nucleari) del pianeta, con tutti i rischi che ne conseguirebbero (e attenzione: la Nato ha appena avviato un’esercitazione con 60 aerei sui cieli dell’Europa simulando il trasporto di armi nucleari). Perché le pretese della Cina nell’area non si limitano a Taiwan: Pechino reclama il dominio su appezzamenti di terra e acque adiacenti che al momento appartengono, stando al diritto internazionale, a Filippine, Vietnam, Malesia e Brunei. Un programma “ampio”, si potrebbe definire. Che peraltro s’intreccia con le presidenziali americane del prossimo 5 novembre (e continuano le accuse a Pechino per l’utilizzo di reti di spam, con post sui social a sostegno di teorie cospirative antisemite, per influenzare le elezioni statunitensi) e con una “fragilità strutturale” delle istituzioni internazionale, già duramente messe alla prova (eufemismo) dai due conflitti in corso: guerre dove le “regole”, le norme scritte e condivise che dovrebbero garantire una pacifica convivenza, vengono apertamente violate con la forza, dove il più forte impone una “sua” ragione che dovrebbe prevalere sui trattati e sulle convenzioni. Lo scorso marzo, in occasione della Conferenza annuale sulla Sicurezza di Monaco di Baviera, l’International Peace Institute rilevava: «Tali contesti (Ucraina, Gaza) e la continua violazione delle leggi internazionali hanno sollevato preoccupazioni sulla sopravvivenza del sistema e delle norme di base che lo sostengono. Allo stesso tempo, le istituzioni progettate per mantenere tali quadri normativi - comprese le Nazioni Unite - si stanno piegando sotto il peso delle tensioni politiche e delle crisi di legittimità. Come ha sottolineato il Segretario Generale delle Nazioni Unite, quando ha descritto la comunità globale come “più frammentata e divisa che in qualsiasi altro momento degli ultimi 75 anni”».

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