SCIENZA E RICERCA
Un nuovo studio fa luce sugli spostamenti delle popolazioni africane ancestrali
Ricostruire gli spostamenti che hanno portato l’homo sapiens fuori dal continente africano e a diffondersi ovunque sulla Terra è un’impresa non sempre facile, soprattutto quando parliamo di Africa e di migrazioni molto antiche. Non ci sono documenti da scartabellare, né miti o leggende orali da cui partire. L’unico modo per cercare di ripercorrere la sua storia, che poi è la nostra storia, è attraverso lo studio di resti scheletrici. L’analisi del dna dei campioni di resti umani antichi, confrontati con altri campioni di dna più recenti e provenienti da zone diverse del continente, sta rivelando la sua efficacia. Uno studio recente infatti, condotto da Mark Lipson e colleghi, pubblicato sulla rivista Nature a febbraio 2022, rivela che tra il tardo Pleistocene e il primo Olocene ci sono stati degli importanti cambiamenti demografici nel continente africano, in particolare nella zona sub-sahariana. Per dare un orientamento nel tempo, stiamo parlando di popolazioni esistite tra 125.000 fino ai 12.000 anni fa.
“È un articolo importante perché comprendere la complicata articolazione delle genti preistoriche d'Africa significa comprendere meglio la nostra storia” spiega Melania Gigante, assegnista di ricerca al dipartimento di Beni Culturali dell’università di Padova e specialista in bioarcheologia. La storia delle popolazioni umane africane è una storia molto complessa, che è costruita su una serie di eventi demografici che hanno influenzato i modelli di variazione genetica in tutto il continente. Questa storia è stata forgiata dalle relazioni tra i gruppi di cacciatori e raccoglitori, dalle modalità di sviluppo e dalla diffusione dell’agricoltura, dalle reti sociali create dai nostri antenati per far circolare le materie prime, come per esempio l’ossidiana, la cui circolazione è attestata da evidenze archeologiche datate a 300.000 anni fa. “Non si sa ancora con precisione ma forse” spiega la dottoressa Gigante “all'interno di questo sistema di movimento di beni vi era anche un sistema di mobilità di individui, che va a intensificarsi poi nel tardo Pleistocene - primo Olocene, quando con il passaggio dalla media età della pietra alla tarda età della pietra, abbiamo uno sviluppo in termini di tecnologie, di tradizioni, di comportamenti simbolici che cominciano a manifestarsi in maniera massiccia nell'Africa sub-sahariana”.
Intervista alla dottoressa Melania Gigante, servizio e montaggio di Elisa Speronello
Lipson e i suoi colleghi hanno analizzato il genoma di sei individui provenienti da Malawi, Tanzania e Zambia, vissuti tra 18.000 e 5.000 anni fa, a cui sono stati aggiunti altri 28 genomi già pubblicati, già analizzati in altri studi precedenti, proveniente da Etiopia, Sud Africa, e tra questi per 15 genomi è stato possibile ottenere nuovi e migliori dati, o meglio una migliore contestualizzazione all’interno di diversi pool genetici. Tutte le sequenze sono state quindi confrontate con i gruppi genetici attuali, soprattutto dell’Africa nord-orientale, centrale e meridionale, per ricostruire i cambiamenti nelle strutture di popolazione su scala regionale e continentale, “e soprattutto di capire quali furono effettivamente, seppur in maniera preliminare e abbozzata, le dinamiche di popolamento dei raccoglitori del Pleistocene tra i tropici e le regioni più temperate” continua Melania Gigante.
Contrariamente ai dati già in possesso dei ricercatori, il nuovo studio evidenzia un modello di popolamento genetico a tre vie, cioè con un’ascendenza legata all’Africa centrale, all’Etiopia e all’Africa meridionale, che è presente in proporzioni variabili dal Kenya allo Zambia in tutte e tre le componenti negli individui provenienti dal Malawi da circa 16.000 anni e dalla Tanzania da circa 7.000 anni fa. Questo ci fa capire che prima di 16.000 anni fa c’erano delle condizioni di mobilità e di connessione qualitativamente diverse in tutta l’Africa orientale e centro-meridionale, quindi tra gli 80.000 e i 20.000 anni fa è stata elaborata una rete di mobilità a lunga distanza che ha contribuito alla formazione di una struttura genetica che è rimasta presente per migliaia di anni.
Però poi qualcosa cambia: “se integriamo infatti, i nuovi dati genetici con la cronologia, l'ecologia e la cultura materiale, ciò che emerge è che il più forte produttore di somiglianza genetica è la vicinanza geografica” spiega la bioarcheologa, sottolineando che le migrazioni a lungo raggio che avevano generato quel pool genetico diventano rare verso la fine del Pleistocene.
Approfondimento su come si studia un resto scheletrico, intervista alla dottoressa Gigante - Servizio di Elisa Speronello
“Questo quadro” continua la dottoressa, “si sovrappone perfettamente con l'ipotesi di regionalizzazione della cultura materiale. Per cui si formano dei cluster, vi è un elevato flusso genetico all'interno di un range di 100 chilometri, e soltanto in alcuni casi, come Malawi o Zambia, l'elevata parentela è rivelata solo negli individui sepolti allo stesso sito”.
Quindi la situazione evidenziata dallo studio è questa: prima le popolazioni percorrevano lunghe distanze e c’era una grande interconnettività tra gruppi umani con pool genetici molto diversi tra loro; successivamente le distanze percorse si accorciano, c’è una bassa dispersione e le interazioni diventano più locali. Queste dinamiche hanno influenzato non solo la genetica delle popolazioni africane ancestrali, ma anche le lingue. Ci sono lingue che, pur appartenendo a famiglie diverse, secondo i linguisti potrebbero essersi originate da una singola famiglia. Per tanto i legami genetici evidenziati dallo studio potrebbero rafforzare l’ipotesi di una commistione e circolazione di persone e di cultura.