SCIENZA E RICERCA
Vaccini&Politica. “Senza ricerca e investimenti sei in ginocchio con il bancomat in mano”
Rendere pubblici i brevetti? Rilanciare la ricerca statale e la produzione di vaccini? Cose belle a dirsi ma difficili da mettere in atto: soprattutto se per anni si è trascurato un settore strategico come quello farmaceutico. Non ha paura di parlar chiaro la giornalista e saggista Daniela Minerva, direttrice di Salute (piattaforma multimediale di Repubblica, La Stampa e dei quotidiani del gruppo Gedi), che da 35 anni segue la ricerca scientifica e la politica sanitaria italiana.
Intanto la campagna vaccinale sembra finalmente uscire dall’impasse: oltre il 20% degli italiani ha ricevuto almeno la prima dose e ci si avvicina all’obiettivo indicato dal commissario straordinario Figliuolo di 500.000 somministrazioni giornaliere. Allo stesso tempo però la pandemia ha messo in luce un sistema Paese fragile e impreparato, e c’è poco da stare allegri se anche altri Paesi europei sembrano condividono le nostre difficoltà. Ma perché l’Italia e in generale l’Europa non riescono ad avere una produzione sufficiente di vaccini? Come siamo arrivati a questo punto?
Intervista di Daniele Mont D'Arpizio, montaggio di Elisa Speronello
Un tema molto dibattuto, sul quale in queste settimane Il Bo Live ha raccolto diverse opinioni. Secondo il sociologo Renzo Guolo un grosso problema è rappresentato della proprietà intellettuale sui farmaci, particolarmente difficile da giustificare in tempo di pandemia: “Dall’inizio si doveva lavorare sulla questione della cessione del brevetto – ha spiegato al nostro giornale –, per produrre localmente e rispondere alla domanda di salute e di tutela sanitaria della coesione sociale proveniente dai territori”.
“C’è poco da fare: il brevetto sui vaccini appartiene a chi li ha messi a punto, come Pfizer e AstraZeneca – è la posizione di Daniela Minerva –. C’è però il caso di Moderna, che è in parte di proprietà del governo federale degli Stati Uniti perché questo un anno fa ne ha finanziato lo sviluppo con due miliardi e mezzo di dollari, in seguito diventati molti di più”. Senza investimenti adeguati insomma la lotta al virus rimane puramente velleitaria: “La richiesta da parte di alcuni di sospendere i brevetti è legittima ma poi, e qui entriamo nella seconda parte del ragionamento, i vaccini bisogna anche produrli – continua la giornalista –. Non tutti sono capaci di farlo, in particolare preparati complessi come quelli per il Covid”. Servono ad esempio bioreattori specifici, che in Italia al momento mancano.
Eppure l’industria nazionale si presenta come un comparto forte, ha spiegato Margherita Morpurgo, docente di tecnologie farmaceutiche presso l’università di Padova: solo che questa capacità produttiva al momento è concentrata sulla manifattura di farmaci tradizionali, non basati ad esempio sulla terapia genica (come ad esempio i vaccini per il Covid-19). “Anche qui il mondo si è diviso tra chi ha preso in mano la situazione e chi invece è stato ad aspettare che cascasse qualche fiala dalle mani dei potenti – spiega su questo punto Daniela Minerva –. Un anno fa era già chiaro che il vaccino sarebbe prima o poi arrivato e noi cosa abbiano fatto? Da anni Farmindustria si riempie la bocca su quanto siamo bravi a produrre le molecole degli altri; quando poi finalmente il governo Draghi ha posto il problema di iniziare a produrre i vaccini anche in Italia su licenza si è scoperto che ci volevano 6-7 mesi per adeguare gli impianti. Ci si fosse pensato l'estate scorsa, invece che baloccarsi con i banchi a rotelle, adesso magari saremmo pronti”.
Infografica via Statista
“Non possiamo accettare di avere abbandonato la possibilità di fare ricerca – continua Minerva –: lo dimostra il fatto che nel bene e nel male il vaccino AstraZeneca nasce nel Lazio, all’Irbm di Pomezia. Quindi un filo di capacità di avere qualche idea ce l'abbiamo, ma servono finanziamenti”. Proprio l’amministratore delegato e presidente di Irbm Piero Di Lorenzo ha rivelato nei giorni scorsi di aver tentato di coinvolgere il governo italiano nello sviluppo di Vaxzevria, il vaccino anti Covid oggi prodotto da AstraZeneca, senza che alla fine si arrivasse a un impegno concreto. “Spero che alla luce della pandemia qualcuno si ponga il problema del fatto che continuiamo a dipendere completamente dall’estero, non solo per i vaccini ma ad esempio anche per gli antitumorali. Questo però significa non solo perdere un’opportunità di forte sviluppo, ma anche trovarsi in ginocchio con il bancomat in mano quando hai bisogno dei farmaci. Con il rischio di essere costretti ad accettare le cose a scatola chiusa”.
Sulla gestione complessiva della pandemia, e soprattutto su come migliorare il sistema in vista di altri possibili shock analoghi, la giornalista pensa che si debba puntare soprattutto sulla medicina territoriale, “ad esempio per istituire finalmente le famose case della salute, di cui di parla da anni, o per trasformare i medici di base in dipendenti del servizio sanitario nazionale e istituire l’infermiere di territorio: una serie di misure fondamentali per la quotidianità dei malati in un Paese che invecchia, nel quale aumenta l’incidenza delle patologie croniche”. Sul fatto invece che il Coronavirus possa essere l’occasione per tornare a puntare su ricerca e sviluppo, Daniela Minerva è pessimista: “Non credo che i politici abbiano ancora capito l’importanza del settore e gli industriali farmaceutici non hanno nessun interesse a investire, perché tanto ci sono gli americani e i cinesi che lo fanno per noi. Il problema però è cosa ti chiedono in cambio, e se soprattutto se nel momento del bisogno se li tengono per loro. Proprio come è accaduto con il Covid”.