Sono in molti a ricordare dov’erano e cosa facevano vent’anni fa, quando le tv (i social non c’erano ancora) iniziarono a diffondere le impressionanti immagini degli aerei che colpivano le Twin Towers. Mario Del Pero, oggi docente di storia internazionale e di storia della politica estera statunitense presso la prestigiosa Sciences Po a Parigi, quel giorno era proprio a New York, a poche centinaia di metri dal World Trade Center. “Il ricordo personale è ancora molto vivido e forte – racconta oggi lo studioso –. Erano le 9 del mattino e mi stavo recando in ufficio, a quel tempo avevo un contratto di ricerca postdottorale alla New York University, quando arrivato all'altezza di La Guardia Street ho visto una delle due torri in fiamme. Pensavo fosse un incendio e da un telefono pubblico ho chiamato casa in Italia; a quel punto, mentre parlavo, è arrivato il secondo aereo e c'è stata una grande esplosione”.
Come per molti testimoni oculari di quegli avvenimenti, ancora oggi a prevalere è l’incredulità unita all’ammirazione per la ferma compostezza con cui la città seppe reagire all’attentato: “New York, come spesso le accade quando è toccata da crisi molto forti, è rinata abbastanza rapidamente. Io stesso mi sono sentito parte di una comunità ferita violata e colpita, ma anche caratterizzata da uno straordinario senso di solidarietà, con la gente che da subito si è messa in fila per donare il sangue e per dare una mano ai vigili del fuoco. Proprio questo grande senso di solidarietà e di comunità è l'altro elemento che mi rimasto maggiormente impresso assieme alla tragedia”. Sentimenti di orrore e di orgoglio che oggi sembrano trascolorare sotto il peso del tempo e soprattutto dello scoraggiamento e del pessimismo.
A determinare il senso di disillusione ci sono sicuramente i costi enormi, umani ed economici, della global war on terrorism. I calcoli del Watson Institute for International and Public Affairs presso la Brown University fanno impressione: in 20 anni 7.052 militari americani hanno perso la vita in Afghanistan (2.324) e Iraq (4.598), a cui si aggiungono 8.189 contractors statunitensi e oltre 600 mila tra soldati alleati, truppe locali e vittime civili. E non è tutto, se si considera che ci sono stati anche oltre 30.000 suicidi tra il personale militare e civile statunitense coinvolto nelle post 9/11 wars. I costi per le operazioni militari superano i 2.000 miliardi di dollari, ma se si tiene conto anche delle spese per la sicurezza interna e per l’assistenza sociale e sanitaria dei veterani essi supereranno nei prossimi anni gli 8.000 miliardi: quattro volte il pil italiano.
Intervista di Daniele Mont D'Arpizio; montaggio di Elisa Speronello
“Oggi il coinvolgimento e la forza emotiva di vent’anni fa non ci sono più – continua Del Pero –, l’America vive un anniversario mesto, ovviamente anche per quel che è accaduto in Afghanistan nelle ultime settimane. Tra quei poveri 13 soldati americani morti nell'ultimo attentato all'aeroporto di Kabul c'erano ragazzi che nel 2001 erano appena nati”. Intanto le cause che portarono l’amministrazione Bush agli interventi militari sono state tutt’altro che risolte: “secondo i sondaggi negli americani è rimasta la paura del terrorismo, anche se non più esclusivamente di matrice islamica”.
Guerre, morti e distruzioni: è stato dunque tutto inutile? “Non sappiamo se possa essere definita una sconfitta: in fondo grandi attacchi negli Usa non ci sono più stati, la rete terroristica che aveva pianificato e condotto gli attentati dell'11 settembre è stata in larga misura smantellata, Bin Laden è stato trovato e ucciso. Il problema è che in conseguenza di quell’aggressione è stata avallata e legittimata un'azione antiterroristica permanente. Oggi i droni americani operano in tutto il mondo e mentre stiamo parlando è probabile che alcuni di questi stiano eliminando un potenziale terrorista, ovvero qualcuno identificato come tale”.
“Al contempo – prosegue Mario Del Pero – abbiamo assistito al fallimento eclatante di una grande strategia di trasformazione dell'ordine globale, di esportazione, diciamo così, dei diritti umani e della democrazia. Che, secondo una lettura certamente molto ideologica, avrebbe dovuto trasformare il mondo ed erodere alle basi i fondamenti stessi, le cause originarie del malcontento che genera il radicalismo e il terrorismo”. Più che una guerra per il petrolio insomma quella dichiarata da Bush, e proseguita poi dai suoi successori, è stata una guerra diretta a rompere gli equilibri e a trasformare il mondo, nel tentativo di instaurare una serie di regimi semi o pseudodemocratici che potessero ‘contagiare’ i vicini e al contempo fungere da alleati affidabili per gli Stati Uniti. Una ricetta e una visione nate tra i pensatori neocon come reazione al pragmatismo di stampo kissingeriano e al radicalismo di certe posizioni a sinistra, come ha documentato lo stesso Mario del Pero a partire da uno studio pubblicato nel 2005.
Un’opera di Nation building a tutti gli effetti, ispirata a quanto fatto in Europa nel secondo dopoguerra: “Un progetto straordinariamente ambizioso, ma al contempo velleitario e in ultima analisi fallimentare” spiega oggi lo storico. E che oggi paradossalmente rischia di ritorcersi contro l’amministrazione guidata da Joe Biden, il cui indice di gradimento nei sondaggi ha toccato un nuovo minimo, che aveva fissato la ritirata da Kabul proprio in corrispondenza del ventennale dagli attentati. Mission accomplished? Tutt’altro. “Il fallimento della guerra al terrore è stato eclatante e la disillusione fortissima, e insieme hanno prodotto quel cinismo che cinque anni fa ha contribuito a far eleggere Trump – conclude Del Pero –. Un cinismo che oggi sembra la cifra dominante della politica, non solo statunitense”.