SOCIETÀ

Violenza ostetrica. Cosa emerge dall’indagine esplorativa tra i paesi UE

Abusi verbali, mancanza di consenso informato ed eccessiva medicalizzazione sembrano essere le forme di violenza ostetrica più comuni in Europa. Questo è quanto riferisce un rapporto finanziato dalla Commissione europea nell’ambito del progetto SAAGEScientific Analysis and Advice on Gender Equality in the EU. Lo studio, curato dalla professoressa Patrizia Quattrocchi, antropologa medica all’università di Udine, ha lo scopo di fornire per la prima volta una panoramica di questo fenomeno tra i paesi dell’UE. Il documento in questione è accompagnato da un altro rapporto che presenta quattro casi studio sulla violenza ostetrica provenienti, rispettivamente, dalla Francia, dai Paesi Bassi, dalla Slovacchia e dalla Spagna.

Per violenza ostetrica si intende ogni trattamento, pratica o intervento effettuato dal personale sanitario dannoso per la salute fisica o mentale di una partoriente, o lesivo della sua dignità perché irrispettoso, umiliante o non consensuale. Il problema della violenza ostetrica è diventato oggetto di dibattito pubblico – entrando, di conseguenza, nella politica e nel mondo della ricerca scientifica – a partire dagli inizi del Duemila, grazie all’impegno di private cittadine e associazioni civili. “Le prime battaglie per il riconoscimento della violenza ostetrica sono iniziate in America Latina, espandendosi dapprima in Asia e in Africa e, solo successivamente, anche in Europa”, racconta la professoressa Quattrocchi, che sottolinea come questi movimenti “dal basso” siano stati fin da subito focalizzati sul riconoscimento di tali abusi come violazioni dei diritti umani e come forme di violenza di genere, poiché affondano le radici nella mentalità patriarcale che caratterizza la nostra società, fonte di rapporti diseguali tra uomini e donne e di una diffusa noncuranza dei desideri e delle libertà di queste ultime.

Il report

La professoressa Quattrocchi ha coordinato un gruppo di lavoro composto da 27 esperte della rete SAAGE, insieme alle quali ha raccolto e analizzato i dati relativi alla violenza ostetrica disponibili in ognuno degli stati membri. “Abbiamo osservato, innanzitutto, una scarsità di dati sia quantitativi che qualitativi sulla violenza ostetrica nei paesi UE”, spiega. “Non esistono, infatti, studi effettuati dai ministeri della salute o da altri enti statali in Europa. Le uniche informazioni disponibili provengono da lavori condotti da gruppi di ricerca privati, accademici o promossi dalle associazioni civili”. Questo è il caso anche dell’Italia, dove la principale ricerca sul tema è stata svolta nel 2017 dalla Doxa per conto dell’Osservatorio italiano sulla violenza ostetrica.

“Non esiste, d’altronde, un metodo standardizzato che possa essere utilizzato nei differenti paesi UE per raccogliere dati a livello nazionale”, sottolinea Quattrocchi. “Mentre in molti paesi dell’America Latina sono state condotte ricerche ufficiali basate sui medesimi indicatori, rendendo quindi possibile una comparazione dei dati, in Europa ogni gruppo di ricerca ha costruito i propri sistemi di valutazione. A causa di questa eterogeneità tra i metodi di indagine, studi diversi condotti all’interno dello stesso paese riportano stime molto differenti di questo fenomeno, che oscillano tra il 21% e l’81% dei casi”.


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“I risultati del nostro studio mostrano che una delle forme più comuni di violenza ostetrica in Europa è rappresentata dagli abusi verbali: insulti, atteggiamenti infantilizzanti, umilianti o colpevolizzanti che ledono la dignità e la libertà di scelta della donna”, continua Quattrocchi. “Un’altra forma di violenza molto diffusa riguarda la mancanza o l’insufficienza del consenso informato. Spesso le donne non acconsentono a ricevere determinati trattamenti, né vengono interpellate a riguardo. Prima di praticare un’episiotomia (un’incisione chirurgica che serve a facilitare il parto vaginale, ndr), ad esempio, bisogna spiegare alla paziente in cosa consiste l’operazione, chiederle il consenso e, in tal caso, avvertirla quando ci si appresta a iniziare il taglio. Eppure, spesso ciò non avviene.

È importante ricordare, inoltre, che il concetto di violenza ostetrica non nasce solo da studi antropologici, sociologici o delle battaglie delle attiviste, ma anche sulla base di risultati di ricerche cliniche che hanno lo scopo di capire quali trattamenti siano sicuri ed efficaci – e quando e in che quantità vadano effettuati – per garantire un’assistenza al parto di qualità. Dai dati che abbiamo raccolto emerge un problema di eccesso di medicalizzazione rispetto agli standard previsti dall’OMS, soprattutto nei paesi del Sud Europa, come Italia, Spagna, Grecia e Portogallo. I tassi di svolgimento di alcune pratiche, tra cui il taglio cesareo, rappresentano dei parametri in base ai quali valutare la qualità dell’assistenza al parto”. Com’è specificato nel report, secondo le stime dell’OMS il cesareo è necessario nel 10% dei casi. Per questo motivo, quando la percentuale di tali operazioni supera quella quota, essa può diventare un indicatore di un’eccessiva medicalizzazione. “Nei paesi europei il taglio cesareo è più comune di quanto si creda”, continua Quattrocchi. “Un’operazione che in alcuni casi può rivelarsi un salvavita, viene talvolta effettuata soltanto per anticipare il momento del parto a causa di una mancanza di risorse – di personale, materiali o organizzative – della struttura sanitaria. Quando praticato senza motivo o senza consenso, un cesareo costituisce quindi una forma di violenza ostetrica.

Dai dati raccolti dai documenti sanitari e dai racconti delle donne si evince inoltre una quantità eccessiva di episiotomie, induzioni del travaglio con ossitocina, esplorazioni vaginali non consensuali e manovre considerate non raccomandabili dalle organizzazioni internazionali, come la manovra di Kristeller (una forte spinta sulla pancia della donna in travaglio per esercitare una pressione sul fondo uterino e accelerare, di conseguenza, la fuoriuscita del nascituro, ndr)”.

Una questione di diritti

“Una donna dovrebbe poter rifiutare di ricevere un determinato intervento medico-chirurgico”, continua la professoressa. “Ne va del rispetto di un diritto umano fondamentale: quello alla salute sessuale e riproduttiva”. Eppure, come emerge dal report, il Portogallo è l’unico paese UE dotato di una legge che tuteli esplicitamente il rispetto dei diritti umani della partoriente. Nella maggior parte degli stati membri esistono norme volte a garantire uno standard minimo di assistenza durante la nascita, la cui esistenza non basta però a garantirne l’ottemperanza.

Ma il dato più significativo riguarda il fatto che nessun paese europeo ha ancora emanato una legge nazionale specifica contro la violenza ostetrica. “Da questo punto di vista siamo molto in ritardo rispetto a diversi paesi dell’America Latina, dove la definizione giuridica di questo tipo di violenza è servita per legittimare socialmente il problema e ha consentito di prevedere sanzioni amministrative o addirittura penali in caso di inosservanza”, spiega Quattrocchi. “In Europa, gli abusi in questione possono essere portati in tribunale solo attraverso denunce di altro tipo; come, ad esempio, malasanità o negligenza. Nella nostra analisi abbiamo mappato 22 denunce di questo tipo (tra queste, ci sono casi di mancato consenso, sterilizzazione forzata o abuso di medicalizzazione) che fanno esplicitamente riferimento alla violenza ostetrica”, racconta Quattrocchi.

Come spiega Quattrocchi, solo tre comunità autonome della Spagna – Catalogna, Valencia e Paesi Baschi – dispongono attualmente di norme specifiche contro la violenza ostetrica: “La definizione di violenza ostetrica della Catalogna è particolarmente interessante perché richiama quelle ormai storiche dell’Argentina e del Venezuela”, spiega Quattrocchi. “Viene posto l’accento sulla dimensione di genere di questo tipo di abusi, che limitano l’autodeterminazione delle donne e mettono a rischio la loro salute riproduttiva e sessuale. L’esistenza di leggi ad hoc in queste comunità dimostra inoltre che in quei luoghi è stato svolto un dibattito pubblico, sociale e politico che ha coinvolto anche le associazioni medico-scientifiche. È fondamentale procedere su questa strada, creando delle occasioni di dialogo con i professionisti della salute”.

La dimensione strutturale della violenza ostetrica

Uno dei motivi che ostacola l’introduzione di leggi in materia è dovuto alla mancanza di una definizione unica e concordata di violenza ostetrica. Anche la terminologia stessa è stata per lungo tempo oggetto di dibattito. “L’uso del termine “violenza” ha incontrato alcune resistenze da parte, soprattutto, di alcune organizzazioni professionali”, riferisce Quattrocchi. “Le associazioni di ostetrici e ginecologi di diversi paesi (tra cui anche l’Italia) si sono opposte all’utilizzo di quest’espressione, ritenendo che essa veicolasse un messaggio denigratorio nei confronti della professione sanitaria o del personale ospedaliero. Semmai è il contrario. Questa denominazione serve infatti a evidenziare la dimensione strutturale del problema, che deriva cioè da un insieme di fattori socioculturali (che riguardano la concezione della donna e l’immaginario esageratamente interventista e ipermedicalizzato che abbiamo costruito sulla gravidanza e sul parto) e materiali (per cui i sistemi sanitari devono spesso fare i conti con la mancanza di risorse, carichi di lavoro eccessivi e turni prolungati) che non dipendono dai singoli professionisti”. Il report mostra infatti come gli operatori sanitari stessi corrano il rischio di sviluppare problemi di salute mentale o sindrome da burnout quando si sentono in colpa a far parte di un sistema caratterizzato dalla violenza ostetrica e frustrati all’idea di non poterlo cambiare.

“Lo scopo non è certo quello di demonizzare gli operatori sanitari”, spiega Quattrocchi. “L’intento, piuttosto, è mostrare che, così come avviene per le altre forme di violenza di genere, non si può considerare – e, di conseguenza, affrontare – la violenza ostetrica come un insieme di episodi separati che coinvolgono singole donne o singoli operatori sanitari; va riconosciuta, piuttosto, la natura sistematica e strutturale di questo problema. Per fortuna si sta via via superando questa incomprensione. Oggi osserviamo, infatti, un numero crescente di ostetriche e altri operatori sanitari che hanno preso consapevolezza del problema e non si sentono perciò offesi dall’utilizzo del termine. Negli ultimi anni, infatti, anche nella letteratura scientifica condotta in ambito accademico e da parte delle organizzazioni internazionali vi è un crescente utilizzo del termine ‘violenza ostetrica’”.

L’importanza degli osservatori

Nel report viene sottolineata anche l’importanza del lavoro condotto dagli osservatori sulla violenza ostetrica che si occupano di raccogliere dati, condurre campagne di informazione e sensibilizzazione, sollevare l’attenzione pubblica e politica sul tema e proporre linee guida per il contrasto al fenomeno. In cinque stati esistono osservatori sulla violenza ostetrica (Italia, Spagna, Francia, Portogallo e Grecia). In altri paesi (Germania, Irlanda, Polonia, Ungheria, Slovenia e Slovacchia), osservatori istituiti per altri scopi hanno promosso iniziative o raccolte dati sulla violenza ostetrica. In 23 stati membri è stata segnalata inoltre la presenza di 47 organizzazioni della società civile attive sul territorio con diversi tipi di iniziative.

“Grazie all’impegno da parte degli osservatori e delle associazioni della società civile è gradualmente cresciuta la consapevolezza rispetto a questo problema in tutta Europa, anche da parte dei governi locali e delle istituzioni pubbliche deputate alla salute”, sottolinea Quattrocchi. “In alcuni paesi, ad esempio, vengono organizzati percorsi di formazione per gli operatori sanitari focalizzati sulla violenza ostetrica. Insomma, stiamo cominciando a osservare un trend positivo, però c’è ancora molto lavoro da fare”.

La ricerca continua

Nella sezione conclusiva del report viene fornito un elenco di raccomandazioni utili a promuovere il contrasto alla violenza ostetrica a livello nazionale e internazionale. “Una delle principali raccomandazioni è rivolta all’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (EIGE), al quale abbiamo chiesto di definire dei metodi di misurazione standardizzati sulla base dei quali i paesi UE possano condurre indagini a livello nazionale”, asserisce Quattrocchi. “L’impegno dell’Unione Europea sul fronte della violenza ostetrica non può comunque limitarsi alla commissione di documenti esplorativi come questo, ma deve tradursi anche nel finanziamento di progetti di ricerca a lungo termine”. Il programma IPOV respectful care, coordinato dalla professoressa Quattrocchi, è uno di questi. Il progetto prevede la partecipazione di 19 istituzioni in nove paesi e di un gruppo internazionale di circa quaranta esperti che si occupano di violenza ostetrica in diversi ambiti: da quello accademico, a quello sanitario, a quello sociale. “Cercheremo di stabilire un dialogo tra i decisori politici, i movimenti sociali, le opinioni delle donne, i professionisti della salute e i ricercatori per continuare a raccogliere dati e organizzare delle esperienze formative rivolte agli operatori sanitari”, racconta la professoressa. “Non si possono escludere i punti di vista e le esperienze delle donne durante il parto, perché al centro di questa esperienza ci sono i loro corpi. Si tratta di un concetto chiave da comprendere per riuscire davvero a contrastare la violenza ostetrica e a garantire, quindi, un’assistenza al parto di qualità”.

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