SOCIETÀ

I segreti dell'altruismo

Recentemente la Charities Aid Foundation UK ha pubblicato il World Giving Index 2014, un rapporto relativo al "comportamento prosociale", ovvero alla solidarietà e all'altruismo, in 135 paesi. Oltre ad un valore generale, il rapporto misura tre sotto-categorie di comportamento altruistico: le donazioni in denaro, la quantità di tempo dedicata al volontariato e l'aiuto fornito a sconosciuti. Se al primo posto, a pari merito, figurano gli Stati Uniti e la Birmania, l’Italia è invece soltanto al 79°, a pari merito con Afghanistan, Vietnam e Senegal, paesi con livelli di benessere, sviluppo e incidenza della povertà molto diversi dai nostri. Nel dettaglio, siamo al 72° posto come disponibilità ad aiutare uno sconosciuto, al 52° per quanto riguarda le donazioni in denaro e addirittura al 114° per quanto riguarda il volontariato - un dato forse inatteso, considerato quanto esso, nelle sue diverse forme, è stato raccontato ed evidenziato in questi anni dai media nel nostro paese. 

A parte alcuni risultati a sorpresa e la constatazione che gli italiani potrebbero fare di più per aiutare i bisognosi, la pubblicazione del World Giving Index 2014 è una buona occasione per discutere quali fattori influenzano maggiormente la disponibilità delle persone ad aiutare il prossimo. Ovviamente, i comportamenti altruistici sono influenzati da fattori socio-economici che incidono sulla percezione che le persone hanno dei problemi propri e di quelli altrui. Tuttavia, sappiamo che esistono diversi processi psicologici di base che influenzano la disponibilità ad aiutare e proprio qui è possibile evidenziare alcuni aspetti importanti.

Innanzitutto, la motivazione ad aiutare emerge solo quando si è consapevoli delle difficoltà e problemi vissuti dagli altri, e per farlo occorre provare empatia. L'empatia, ovvero la capacità di capire e condividere le emozioni altrui, è una facoltà fondamentale perché una comunità possa vivere in armonia, dato che è centrale nelle relazioni sociali e per il rispetto del prossimo. Come dimostrano gli studi di Daniel Batson e colleghi, riuscire a comprendere il dolore che sta provando un’altra persona ci motiva ad agire per cercare di ridurlo. Sfortunatamente, però, le persone non sono sempre in grado di utilizzare al meglio questa spinta emotiva e tendono ad avere una percezione ingenua dell’efficacia dei loro comportamenti altruistici. Per esempio, sono più propense ad agire in risposta a una sciagura improvvisa e ad aiutare chi ha subito una perdita a causa di un disastro naturale, come un terremoto, piuttosto che persone che soffrono da anni a causa di una grave malattia cronica. Il disastro naturale è percepito come una perdita, ed è anche abbastanza semplice immedesimarsi in chi ha perso la casa o ha subito danni fisici.

Paul Slovic ed i suoi colleghi del Decision Research hanno dimostrato l’esistenza di una correlazione fra la possibilità di identificare il destinatario del nostro aiuto favorendo così l'immedesimazione emotiva e la disposizione ad agire concretamente. Quando l'oggetto della nostra solidarietà viene percepito come distante e generico, l'empatia diventa più difficile.  È il fenomeno che gli studiosi hanno chiamato “insensibilità psicofisica”, per cui all’aumentare del numero di persone che hanno bisogno di aiuto diminuisce la disponibilità a donare. Per esempio, le donazioni in beneficienza sono risultate più alte quando a riceverle era una singola persona rispetto a quando veniva fornita la statistica relativa alle centinaia di migliaia di persone che si trovavano in quella stessa situazione. Inoltre, le persone sembrano ritenere che sia più efficace un programma che aiuta 4.500 vite su un totale di 11.000 piuttosto che 4.500 vite su un totale di 250.000. La proporzione, rispetto all'ammontare complessivo del problema da risolvere, sembra un fattore importante, anche se in assoluto il numero di vite salvate è il medesimo. 

Questi studi hanno anche portato a formulare l’ipotesi di una "funzione del collasso" relativa al modo in cui viene percepito il valore delle vite umane. In alcune ricerche condotte in Israele, Kogut e Ritov hanno trovato che già con otto persone a rischio la volontà di aiutare è significativamente inferiore rispetto a quando c’è un singolo individuo in difficoltà (la somma da raccogliere era la medesima nei due casi). Gli studi hanno dimostrato che emozioni come empatia e compassione sono più intense quando è facile elaborare le informazioni e crearsi delle immagini mentali quanto più concrete possibili. Così come si riesce a prestare completa attenzione solo per un periodo di tempo breve, allo stesso modo è più semplice concentrare la nostra empatia su una sola persona. Quando ci sono una molteplicità di persone in difficoltà è più difficile provare emozione: la motivazione ad agire risulta fortemente ridotta e intervengono facilmente delle giustificazioni intuitive per non impegnarsi (ad esempio, il pensiero che si tratta solamente di una goccia nel mare).

I risultati di questi studi hanno anche portato a ritenere che questo "collasso della compassione" sia una tra le ragioni per cui spesso le persone, i media e anche i governi sono sostanzialmente insensibili ai genocidi e a forme di sofferenza di massa che si verificano in molti paesi, come nei casi recenti di Siria e Sudan. Certamente le ragioni di questa insensibilità sono molteplici, tuttavia, citando Stalin “un morto è una disgrazia, un milione di morti è una statistica”. A causa del modo in cui proviamo emozioni, ci interessiamo e preoccupiamo molto più facilmente quando una singola persona è vittima di un evento drammatico che non quando vengono soppresse centinaia di migliaia o milioni di vite umane. 

Enrico Rubaltelli

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