Quattro generazioni e mezza. È il tempo che occorre perché chi nasce nelle famiglie più povere possa raggiungere il livello medio di reddito del suo Paese. Attenzione, non stiamo parlando di Africa né Sudamerica: questo intervallo, che oltrepassa il secolo, è la media negli Stati dell’Ocse, l’organizzazione che raggruppa le nazioni più ricche e industrializzate del mondo. L’Italia va un po’ peggio: per arrivare al reddito medio servono cinque generazioni. Se guardiamo invece ai colossi in espansione (lo studio considera anche alcuni esempi di Stati non membri), in India e Cina le generazioni diventano sette; in Brasile, nove. Basterebbe questa stima a sintetizzare il rapporto Ocse L’ascensore sociale è guasto?, un’analisi di 355 pagine sulle cause, lo stato, le prospettive della mobilità sociale impossibile; una fucina di spunti di riflessione per economisti, politici, sociologi, ma anche per chiunque voglia interrogarsi a fondo sulle regole e i correttivi da apportare a un modello, quello delle economie di mercato, che se appare globalmente consolidato alimenta un dibattito continuo su come si governa uno sviluppo tanto impetuoso quanto contraddittorio. Secondo il rapporto, nei Paesi dell’organizzazione il reddito medio del 10% più ricco è nove volte e mezzo quello del 10% più povero: un livello di disuguaglianza pari a sette volte quello che si registrava 25 anni fa.
La tesi del rapporto è netta: la scarsa mobilità sociale è sempre un male, perché (anche prescindendo da considerazioni etiche) è portatrice di conseguenze economiche e sociopolitiche che generano comunità statiche, irrisolte, a scarsa partecipazione alla vita pubblica, poco scolarizzate, dalla salute malcerta. Paesi, quindi, non in grado di esprimere potenzialità e talenti individuali: ciò che, in un’ottica di pura efficienza economica, mina alla base la crescita e lo sviluppo nazionale. La base di discussione per gli analisti Ocse è la cosiddetta “curva del Grande Gatsby”, ossia la correlazione tra disuguaglianza, intesa come distribuzione del reddito di una popolazione, e mobilità sociale. L’Ocse riconosce che il rapporto teorico tra i due fattori è un territorio tutto da esplorare, ma registra che i dati finora a disposizione convergono: più in uno Stato il reddito è distribuito in modo disuguale (è il criterio del “coefficiente di Gini”), minore è la mobilitàsociale (intesa, qui, come “elasticità tra generazioni”, l’indice che denota quanto lo status reddituale del genitore influenzi quello del figlio). I grafici, in effetti, ci mostrano un quadro a due tinte: al vertice positivo i Paesi nordici(Danimarca, Norvegia, Finlandia, Svezia), caratterizzati da un’elevata mobilità dei redditi tra generazioni e da un ridotto indice di disuguaglianza; all’estremo negativo, Stati (esterni all’Ocse) come Colombia, Brasile o Sudafrica, nei quali la grande disuguaglianza si accompagna a una forte influenza nel reddito dello status paterno. E proprio riguardo a questo secondo parametro, l’Italia è nel gruppo dei Paesi Ocse in cui è più difficile “affrancarsi” dal reddito del genitore, sia verso l’alto che verso il basso.
La metafora usata dall’Ocse per la mobilità sociale, infatti, è duplice. Le società presentano “pavimenti appiccicosi”, perché è difficile elevarsi dallo stato di partenza; ma, al contempo, sono dotate anche di “soffitti appiccicosi”: questa è la mobilità nella direzione opposta, dall’alto verso il basso, ugualmente scarsa. Chi è in cima alla scala sociale, spiega lo studio, difficilmente va giù. E questo, secondo l’Ocse, non è positivo: perché questa “permanenza all’empireo” non riguarda fasce medio-alte, ma i vertici economici assoluti, le élite più ristrette e influenti. E il fatto che, una volta conseguita dalla propria famiglia l’appartenenza a questi club, ben difficilmente un discendente ne esca, si traduce in rendite di posizione perpetue, i cui costi ricadono sull’intera società e, in ultima analisi, sull’efficienza economica dell’intero sistema Paese. Tornando all’Italia, nella graduatoria Ocse il nostro Paese si colloca a un livello medio di disuguaglianza (è il gruppo intermedio anche tra gli Stati europei), ma la situazione peggiora decisamente quando si valuta il grado di mobilità sociale nelle diverse sfaccettature. L’Italia, infatti, rimane nella media Ocse solo per i parametri intergenerazionali relativi a reddito e salute, e per la mobilità verso il basso dei redditi più elevati nell’arco di una singola generazione. Precipita invece nel gruppo peggiore per la mobilità tra generazioni relativa a stato occupazionale e istruzione, nonché per la mobilità verso l’alto dei redditi più modesti nell’arco di una generazione.
Nell’oceano di dati, colpisce quello sulla mobilità sociale nell’istruzione. Nella fascia 55-64 anni, gli italiani che hanno conseguito un titolo superiore a quello dei genitori sono circa uno su quattro, il livello più basso dell’area Ocse dopo la Turchia. Le cose vanno meglio se consideriamo la fascia 25-34 anni: qui gli italiani più istruiti dei loro genitori si avvicinano al 50%, un dato superiore alla media Ocse. Il rapporto evidenzia una chiara correlazione tra investimenti pubblici in istruzione ed elevata “mobilità educativa”: nei soliti Paesi nordici si riscontrano, al contempo, la più alta percentuale di Pil destinata all’istruzione e la minore incidenza del titolo di studio dei padri su quello dei figli. Il livello di istruzione non influenza solo il reddito: un venticinquenne laureato ha, secondo l’Ocse, un’aspettativa media di vita superiore di quattro anni e mezzo (per le donne) e otto (per gli uomini) rispetto a un coetaneo con un basso titolo di studio.
Il rapporto considera poi gli eventi della vita che incidono fortemente in negativo sul reddito, determinando un salto verso il basso nella scala sociale. Èinteressante notare come, di fronte a uno stesso evento, in ogni Paese vi siano conseguenze diverse, più o meno negative a seconda del sistema di protezione sociale presente. Prendiamo ancora l’Italia. La perdita del lavoro determina una forte diminuzione del reddito (del 20% o più in un anno) per circa una persona su tre: un dato più o meno in linea con la media Ocse. Se invece valutiamo un evento come il divorzio, in Italia si determinerà un’analoga conseguenza negativa per oltre una persona su due, e in questo caso siamo tra gli Stati Ocse più svantaggiati. Impressionante, poi, è il dato sull’incidenza della nascita di un figlio sulla perdita di reddito. In questo caso le probabilità di impoverimento sono del 30%: un dato in apparenza non peggiore di altri, ma ciò che fa riflettere è che questa percentuale è la terza più alta dell’area Ocse dopo Cile e Grecia.
Nel rapporto non manca una parte “politica”, in cui vengono delineate, in estrema sintesi, le principali sfide che i governi dovrebbero affrontare per migliorare la mobilità sociale. In primo luogo, gli interventi devono agire sul fronte dell’istruzione, tutelando le classi disagiate e prevenendo gli abbandoni. Cruciali sono anche le politiche pubblicheper la salute, che devono avere due direzioni privilegiate: la tutela dei bambini provenienti dai ceti più a rischio e un’assicurazione sanitaria garantita alle famiglie non abbienti. In tema di interventi per la famiglia, l’Ocse evidenzia la necessità di politiche per sviluppare l’occupazione, ma anche di educazione al risparmio. Non mancano le raccomandazioni sulle politiche per la casa e la pianificazione urbanistica, per evitare la formazione di aree a forte concentrazione di fasce a rischio.
Riguardo al ruolo statale nella protezione sociale (le statistiche mostrano, tra l’altro, che è la classe media la più a rischio di perdita di reddito), l’Ocse suggerisce anche forme di supporto al reddito e al reinserimento lavorativo,controlli sulla meritocrazia nelle assunzioni e incentivi all’assunzione di categorie svantaggiate, un rafforzamento della transizione scuola-lavoro, e l’adozione di modelli che, in generale, prevedano forme di welfare non come benefitlegati a un posto di lavoro, ma come tutele universali. Sul fronte fiscale, infine, l’Ocse raccomanda scelte che penalizzino l’eccessiva accumulazione di redditi e capitali, con aliquote progressive, maggiori imposte di successione e donazione, eliminazione di eccessive esenzioni fiscali. Un complesso di misure ad ampio raggio, che non troveranno concordi gli economisti e che si scontrano con la tendenza di molti governi europei a praticare politiche di bilancio prudenti, poco propense ad ampliare la spesa pubblica, nel timore che la recessione torni a colpire. Rigore, equità e sviluppo saranno sempre antitetici?