SOCIETÀ

Il 2022 è l’anno in cui la biodiversità deve tornare al centro

Sono passati già 30 anni e ancora c’è tantissimo da fare. Era inizio inverno a Rio de Janeiro, in Brasile, in quella prima metà di giugno, quando ha preso il via l’Earth Summit, la conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo, quella dalla quale è uscita, nero su bianco, la Convenzione sulla Biodiversità. Entrata in vigore l’anno successivo, e arrivata ora a 196 paesi firmatari, quindi a una quasi unanimità, la Convenzione agisce su tre assi: la conservazione della biodiversità; l’uso sostenibile delle risorse genetiche e dunque della biodiversità e la condivisione equa e corretta dei benefici associati allo sfruttamento delle risorse genetiche. 

A Rio sono state approvate anche la Dichiarazione di Rio, un documento che esplicita 27 principi alla base del concetto stesso di sviluppo sostenibile, e l’Agenda 21. Nel complesso, i documenti usciti dalla Conferenza di Rio costituivano un importante passo avanti nel considerare l’ambiente nella sua complessità, nel guardare alla biodiversità non come la semplice somma delle specie ma in una visione molto più organica, di relazioni tra specie, ambiente, uomo. C’era un esplicito riconoscimento del ruolo delle popolazioni indigene nella conservazione ambientale così come il riferimento chiave alla necessità di riconoscere a queste stesse popolazioni anche i benefici tratti dallo sfruttamento delle risorse ambientali e genetiche da parte di aziende, enti di ricerca, e altri soggetti che prima di allora semplicemente si appropriavano di queste risorse senza chiedere il permesso a nessuno. In altre parole, da un lato i documenti sono uno strumento di protezione, più avanzati ed evoluti rispetto alla visione di conservazione statica che nei decenni precedenti il Summit caratterizzava gli sforzi e le campagne di protezione delle specie a rischio, e dall’altro regolamentavano un uso sostenibile, una parola che è diventata molto più utilizzata da Rio in poi, delle risorse genetiche. 

La Convenzione, abbreviata con la sigla CBD, assieme agli altri documenti approvati a Rio da allora sono il punto di riferimento di tutte le negoziazioni, delle leggi nazionali e internazionali ma anche di moltissime iniziative a tutela della biodiversità globale e più in generale, se pensiamo all’Agenda 21, di programmazione di uno sviluppo sostenibile. Eppure, siamo lontanissimi dall’avere raggiunto buoni risultati. E quest’anno, a tre decadi di distanza, abbiamo quella che molti considerano l’ultima opportunità. La II parte della COP sulla Biodiversità - Conference of the Parties, un termine adottato per indicare tutte le grandi conferenze tematiche delle Nazioni Unite, non solo quelle sul clima - che si terrà in Cina, a Kunming, dal 25 aprile all’8 maggio. La I parte, per gli ormai noti motivi di crisi pandemica, si è tenuta online dall’11 al 15 ottobre in formato ridotto. 

La 15esima COP sulla Biodiversità coinciderà anche con la decima COP del Protocollo di Cartagena sulla Biodiversità e con la quarta COP del Protocollo di Nagoya sull’accesso alle risorse genetiche, due trattati firmati negli anni successivi alla CBD e che ne specificano e applicano in modo più circostanziato alcuni dei principi. Il Protocollo di Cartagena è entrato in vigore nel 2003, dieci anni dopo la CBD, ratificato da 173 paesi, e si occupa di regolamentare l’uso degli Ogm e i rischi eventuali che pongono alla biodiversità naturale nei diversi contesti. Il Protocollo di Nagoya, ratificato da 132 paesi, invece è del 2014 e si occupa della questione della condivisione dei benefici dallo sfruttamento delle risorse genetiche e del trasferimento di tecnologie. 

Fonte: archivio AP

Sembrano davvero voci da un lontano passato quelle che vediamo in questo video di archivio dell’AP. C’è il presidente americano George Bush Sr., che con tutta la retorica e propaganda del caso, snocciola dati che vorrebbero dimostrare il grande impegno americano in favore dell’ambiente. Mentre, al tempo stesso, mette in dubbio l’efficacia della CBD perché avrebbe un effetto devastante per lo sviluppo del settore biotech. Gli Stati Uniti, infatti, sono tra i pochi paesi non firmatari della convenzione, nonostante la loro continua presenza alle COP, un fatto che naturalmente rende molto difficile la realizzazione degli impegni previsti su scala globale visto il ruolo prominente del paese in termini geopolitici ed economici. C’è il premier britannico, il conservatore John Major. E c’è il leader maximo, il presidente cubano Fidel Castro, che commenta lapidario “Un’importante specie biologica rischia di sparire, per la rapida e progressiva liquidazione delle sue condizioni naturali di vita. L’uomo”. Altrettanto diretto ma più emozionato e teso, mentre cerca di convincere i vari rappresentanti dei paesi del mondo a ratificare la convenzione, suona il Segretario generale della conferenza, il diplomatico canadese Maurice Frederick Strong, che sottolinea come “Non possiamo essere accomodanti. Se l’accordo non è sostenuto da un reale impegno per il cambiamento, signori, secondo me nel 21esimo secolo arriveremo a un momento in cui le condizioni per la sopravvivenza della nostra vita diventeranno terminali.” Strong aveva stimato un impegno economico di almeno 125 miliardi di dollari per progetti di conservazione e protezione della biodiversità nei paesi cosiddetti in via di sviluppo, che corrispondono anche ai paesi dove spesso si trovano gli hotspots di biodiversità e dove dunque ci sono la gran parte delle risorse genetiche della terra. I paesi firmatari si accontentarono di molto meno, arrivando a mettere sul piatto solo una piccola percentuale di quella cifra. E oggi, 30 anni dopo, possiamo dire che se il rischio per la vita umana sul pianeta è più alto che mai, non c'è dubbio che a estinguersi siano state centinaia di migliaia di altre specie, in quella che ormai viene definita la sesta grande estinzione.

Il futuro che parla, una bambina in prima linea

“Avete dovuto preoccuparvi di queste cose quando avevate la mia età? Tutto questo sta succedendo davanti ai nostri occhi eppure agiamo come se avessimo tutto il tempo che vogliamo e tutte le soluzioni. Io sono solo una bambina e non ho tutte le soluzioni. Ma voglio che voi vi rendiate conto che nemmeno voi le avete. Ma se non sapete come aggiustare, per piacere, smettete di rompere tutto.” Non è la voce di Greta Thumberg, non sono le parole dei ragazzi di Fridays for future. Sono invece quelle, cristalline e dette in un’aula piena di facce che all’inizio avevano espressioni un po’ paternalistiche, poi imbarazzate e alla fine ammutolite, di Severn Cullis-Suzuki, una rappresentante di ECO, la Environmental Children Organization, un gruppo di 12-13enni che cercavano di cambiare le cose. Severn dice che hanno raccolto fondi per pagarsi il viaggio e andare a Rio a dire agli adulti che “devono cambiare il loro modo di fare”. 

Fonte: videoteca Nazioni Unite

Severn è rimasta “la bambina che zittì il mondo per 5 minuti”. Ma a quel silenzio, oggi possiamo dirlo con tranquillità, sono seguite ben poche azioni. Figlia del biologo genetista, attivista e divulgatore David Suzuki, la cui Fondazione oggi è considerata un punto di riferimento dell’attivismo ambientalista canadese, Severn si è poi laureata in biologia evoluzionistica a Yale, ha fatto un dottorato in etnobotanica, e ha continuato a lavorare nel mondo delle campagne e dell’informazione per l’ambiente. Ma è indubbio che la voce che ha allertato il mondo, nel 1992, sul trend pericoloso di distruzione delle risorse ambientali è rimasta sostanzialmente inascoltata. Chissà se il movimento attuale dei giovani che protestano contro la crisi climatica e lavorano per proporre soluzioni avrà migliore destino. Dobbiamo solo sperarlo per il bene di noi tutti, dell’ambiente in cui viviamo e soprattutto delle generazioni future.

Cosa c’è in gioco a Kunming - Il post-2020 global biodiversity framework

Di biodiversità si parla molto meno che della crisi climatica. Eppure le due questioni sono fortemente intrecciate. Più correttamente, negli ultimi anni, molti autori hanno iniziato a parlare di crisi ecologica, di crisi sistemica planetaria, di global change. Ma nonostante i tre protocolli e molte iniziative, sia locali che globali, c’è davvero ancora tantissima strada da fare per arrivare a una visione condivisa sulle azioni da intraprendere per contenere la perdita di biodiversità nel mondo. “Le risorse economiche, le strategie di monitoraggio e le linee guida sulla biodiversità sono molto meno mature di quelle sul clima, oggi.” scrive Emanuele Bompan in un editoriale sulla rivista che dirige, Materia Rinnovabile. “Così come debole è l’impegno sul tema delle grandi imprese, a partire da quelle del settore alimentare, da sempre le più impattanti sulla natura. Solo una piccola frazione di aziende e multinazionali include la biodiversità nei propri report.” Bompan sottolinea che il mondo finanziario e quello delle grandi aziende e istituzioni hanno iniziato una Taskforce on Nature-related Financial Disclosures per creare un framework per gli investimenti rispettosi dell'ambiente, della biodiversità, per regolamentare e incentivare le aziende a investire su attività a impatto negativo sulla natura. A coordinare la Taskforce, Elizabeth Mrema, avvocata ambientale tanzanese, assistente segretario generale delle Nazioni Unite e segretaria esecutiva della Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica (CBD).

Le negoziazioni online di ottobre, che hanno visto riuniti oltre 6000 delegati di 195 paesi, hanno portato a un obiettivo condiviso, quello di tentare una strada per garantire una possibilità di recupero, e dunque di riduzione del tasso di perdita della biodiversità, entro un decennio. Il documento approvato il 13 ottobre guarda al Summit di Kunmig partendo da questa dichiarazione: “We declare that putting biodiversity on a path to recovery is a defining challenge of this decade” e proseguendo con l’intenzione di adottare e implementare un efficace framework post-2020 sulla biodiversità globale che metta la biodiversità al centro e punti a una rigenerazione entro il 2030 e la piena realizzazione di una Visione di “Living in Harmony with Nature” entro il 2050. 

I paesi firmatari della CBD si sono dunque impegnati a mettere in campo un quadro d’azione globale post-2020 che dovrebbe, con azioni precise e finanziamenti adeguati, avere un impatto sulla perdita di biodiversità, o, prendendo a prestito un’espressione ormai nota a chiunque, riuscire a “flettere la curva” della perdita. Una delle strategie fondamentali per arrivare a raggiungere gli ambiziosi obiettivi sarebbe quella dell’economia rigenerativa. Non basta più solo proteggere e conservare, qui c’è bisogno di rimettere a posto le cose, utilizzando tutte le strategie, le conoscenze scientifiche e le capacità sociali e culturali per progetti di recupero e rigenerazione ambientale. In linea anche con lo sforzo avviato sempre dalle Nazioni Unite di una decade dedicata alla rigenerazione della terra, come abbiamo già raccontato qui. 

Ancora una volta, la questione delle risorse diventa fondamentale. Un documento delle Nazioni Unite prodotto nel 2019 propone una serie di calcoli e stime da parte di diverse istituzioni e centri di ricerca. Si capisce bene che è molto complesso stimare gli investimenti necessari, ma il punto chiave, al di là dei numeri che si possono fornire, è che al momento le risorse impegnate, nonostante le dichiarazioni della Cina, paese che ospita la conferenza, del Giappone, dell’Unione Europea e in particolare della Francia che pare molto interessata a fornire un grande supporto alla strategia post2020, siamo lontani dall’avere a disposizione i soldi necessari. Quello degli investimenti concreti sarà oggetto di una serie di negoziati preliminari che si terranno nelle prossime settimane in preparazione della COP di Kunmig. 

​​La strada da fare è dunque ancora molto molto lunga, più di quella che è stata percorsa tra Rio e Kunmig, ma va percorsa assai più velocemente, e solo un impegno serio potrà davvero dare qualche effetto. Sarà anche necessario tenere alta l’attenzione nei prossimi mesi perché quest’anno ci si gioca seriamente tutto quello che può essere fatto per cercare di rimediare, almeno in parte, al disastro totale inflitto alla biodiversità globale. 

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